La sfida degli impressionisti

Marilde Bordone
Insegnante di Storia dell’Arte

Negli ultimi decenni agli Impressionisti sono state dedicate molte mostre in Italia e in Europa che hanno visto una straordinaria affluenza di pubblico, anche alla luce di una rivisitazione critica importante iniziata già intorno agli anni 50 da Lionello Venturi, primo interprete della corrente.

La Parigi ottocentesca, che celebra gli esiti della rivoluzione industriale nelle Esposizioni, consente all’aristocrazia e alla fiorente borghesia di fruire delle opere d’arte nei Salon d’Esposition, in cui vengono esposte opere selezionate di chiara impronta accademica, che celebrano i valori classici di bellezza e armonia, il cui acquisto contribuisce alla decorazione della propria casa come status symbol denotativo di potere economico.

Il fermento creativo già in atto da parte di un gruppo di giovani artisti si manifesta e si fa esplosivo nella tela “L’origine del mondo” dipinta da Gustav Courbet nel 1866: opera in cui la descrizione quasi anatomica di un organo genitale femminile non è attenuata da alcun artificio storico o letterario e si impone con un’audacia che le conferisce un grande potere seduttivo.

Il dipinto, eseguito su commissione del diplomatico turco-egiziano Khalil Bey, ambasciatore dell’Impero ottomano ad Atene, fu esposto al pubblico in Francia al Louvre solo nel 1995. Secondo uno studio di Claude Shopp, accreditato dagli esperti, la modella, il cui viso è nascosto dal lenzuolo, sarebbe la ballerina Constance Quéniaux, una delle amanti del diplomatico, il quale teneva il quadro in un camerino dietro una tenda verde e lo mostrava agli ospiti delle feste che organizzava a casa sua.

La tela passò poi attraverso una serie di collezioni private, riuscendo a sfuggire al saccheggio dei nazisti e arrivò nel 1954 nella raccolta dello psicanalista Jacque Lacan che la teneva nascosta dietro un pannello. I suoi eredi la donarono allo Stato francese.

Courbet nelle sue manifestazioni d’artista faceva appello alle opere di Tiziano, Veronese e Correggio e alla tradizione di una pittura carnale e lirica. Solo grazie al suo virtuosismo, alla pennellata ampia e sensuale e al colore dalle morbide tonalità ambrate l’origine del mondo sfugge allo statuto di immagine pornografica.

La sfida ufficiale ai rigidi codici accademici e al perbenismo borghese però ebbe origine nel 1863 col Salon de Refusés, concesso ai giovani artisti da Napoleone III per dare spazio alle opere rifiutate da critici ed esperti nelle selezioni ufficiali.

A provocare scandalo fu “Le déjeuner sur l’herbe” di Edouard Manet, non solo a causa della discutibile tematica ma anche dello stile pittorico. L’opera ha come riferimento un’incisione di Marcantonio Raimondi, dal “Giudizio di Paride” di Raffaello.

È scandaloso per il pubblico benpensante vedere una donna nuda che siede disinvoltamente nel bosco tra due signori vestiti mentre un’altra donna semisvestita si sta bagnando, colte in una scena trasportata nell’attualità. I personaggi infatti sono riconoscibili. La donna nuda è Victorine Meurent la modella preferita di Manet, l’uomo al centro è lo scultore olandese Ferdinand Leenhoff e la figura di profilo è uno dei fratelli del pittore. Ma non è solo l’attualizzazione della scena a scandalizzare; per gran parte della critica è da condannare il modo innovativo di dipingere. Viene infatti abbandonato il chiaroscuro. Gli oggetti vengono definiti attraverso accostamenti di toni cromatici luminosi, realizzati con tinte piatte, in un’atmosfera sospesa che sottolinea lo straniamento dei personaggi stessi, divenuti espressione delle nuove inquietudini del mondo.

Manet si trova impreparato e stupito di fronte alle polemiche suscitate, che si ripetono nel 1866 con l’esposizione dell’opera “l’Olympia” che ha ancora per modella la sedicenne Victorine Meurent, e nelle intenzioni dell’artista si ispira alla Venere di Urbino di Tiziano, all’Odalisca con schiava di Ingres e forse anche alla Maja desnuda di Goya. Ma la posa provocatoria, il nastrino allacciato intorno al collo, il fiocco rosso che le orna i capelli, la pelle diafana in contrasto con quella nera della domestica che le porge un bouquet di fiori, presunto omaggio di un’amante, offre al pubblico l’immagine dell’amore venale, quello certamente in uso nell’ambiente più mondano e altolocato della ville lumière, capitale europea di vizi e virtù.

Ma è il nome di Claude Monet quello intensamente legato alle sorti dell’Impressionismo, dalla sua formazione, al suo sviluppo, alle sue conclusioni.

Il movimento inaugura la stagione dell’arte moderna con la mostra collettiva organizzata nello studio del fotografo Nadar al Boulevard des Capucines nell’aprile del 1874. Accanto a Monet ci sono altri giovani pittori nella serietà dei quali quasi nessuno crede: Renoir, Sisley, Pissarro, Cézanne, oltre a Degas e Berthe Morisot.

È un dipinto di Monet “Impression soleil levant” a suscitare le critiche più aspre. Il paesaggista Joseph Vincent, allievo di Bertin, premiato sotto diversi governi dichiara: “Cosa rappresenta il quadro? un’impressione…ne ero certo…una carta da parati appena abbozzata è più rifinita di quella marina”.  È Monet a rivoluzionare il corso della pittura restituendo all’osservatore una visione della realtà emozionale, cogliendo della natura il palpito vitale in un’atmosfera mutevole e fluttuante. Il colore scoppia sulle sue tele in una miriade di tocchi veloci e svirgolati e la luce le inonda con la sua piena solarità.

Significativa è una dichiarazione di Paul Cézanne: “Per un impressionista dipingere la natura non significa dipingere il soggetto, ma concretizzare le sensazioni”.

La sfida aperta all’accademismo imperante si propone in chiave ironica con la genialità di Edgard Degas in una fotografia “L’Apoteosi di Degas” in cui l’artista si fa fotografare seduto sui gradini di un edificio, serio e composto, circondato da figure simmetricamente distribuite: due ragazzi in primo piano e tre donne dietro di lui che porgono mazzi di fiori. Tale fotografia non è altro che la parodia dell’opera intitolata “Apoteosi di Omero”, firmata da Jean Auguste Dominique Ingres nel 1827, conservata al Louvre ed eseguita per decorare il soffitto di una delle sale del Museo stesso.

Ai piedi di Omero, assiso sul trono, siedono le due allegorie dei suoi capolavori: l’Iliade e l’Odissea, dietro di lui si cala la Vittoria alata per coronarlo con la ghirlanda d’alloro, simbolo di Apollo.

Degas stimava Ingres; il bersaglio era lo stile della pittura, cosiddetta accademica, di cui il dipinto era il perfetto manifesto. Egli trovava queste rappresentazioni simmetriche, bilanciate e armoniose troppo idealizzate e lontane dalla natura, vera fonte di vita. Ingres non se ne ebbe a male: era morto da circa 20 anni!

Dopo l’esposizione dell’aprile 1874 ciascuno dei partecipanti, pur partendo da un’esperienza comune, si orienta sulla ricerca di codici espressivi personali. Degas si avvicina al mondo dello spettacolo, della finzione e del mistero che si cela dietro le apparenze, evidenziando una dinamica che affonda le radici nel continuo divenire della quotidianità. Cézanne si orienta sul recupero delle forme, che gli impressionisti avevano scorporato nella luce, e le sintetizza in rigorosi moduli compositivi, semplificandole ed esaltandole col colore. Renoir celebra nella pittura tutto ciò che vive e palpita. Sente le cose come partecipi di un’unità indissolubile di aria e di luce e si inserisce nel flusso della vita. Pissarro, che partecipò a tutte le esposizioni collettive fino al 1886, cerca di realizzare nei suoi quadri una sintesi armonica fra delicatezza contemplativa e vigore strutturale. Sisley si distingue nel paesaggio per un linguaggio misurato e pacato, fatto di pennellate veloci e leggere e di valori tonali sfumati. Berthe Morisot, l’unica donna del gruppo, cresciuta in un ambiente famigliare colto e raffinato (era nipote di Fragonard), presto comincia a dipingere en plein air e ad esporre ai Salon.

Impronta tutta la sua opera pittorica ai nuovi principi della luce e del colore realizzando scene piene di luce, dal cromatismo ricco di valori argentei e delicati.

Gli artisti che condivisero, almeno per un periodo, l’esperienza innovativa dell’impressionismo non ebbero sempre buoni rapporti fra di loro.

Cézanne provava una spiccata antipatia, ricambiata, per Manet e gli si rivolgeva con scortesia. Divenuta celebre la frase con la quale un giorno lo salutò: “Non le stringo la mano, monsieur Manet, perché è una settimana che non la lavo”

Manet ebbe fama di donnaiolo e contrasse la sifilide, che ne segnò il destino, ma fu anche affetto da dolorose forme reumatiche. Il 6 aprile 1883 gli venne amputato il piede sinistro e circa un mese dopo morì a 51 anni.

Berthe Morisot si era perdutamente innamorata di lui e, pur di stargli vicino, arrivò al punto di sposarne il fratello Eugéne anche lui pittore e spesso diede luogo a furibonde scenate di gelosia, soprattutto quando Manet prese come allieva l’avvenente Eva Gonzales.

Berthe continuò a partecipare a tutte le mostre impressioniste, ad eccezione dell’anno in cui nacque la figlia Julie, e finanziò col marito l’ultima edizione, quella del1886, in cui prese parte attiva alla selezione degli artisti. Rimase vedova nel 1892 e nello stesso anno riuscì ad allestire la sua prima mostra personale alla galleria Boussot e Valadon. Nel febbraio del 1895 si ammalò. Ebbe il tempo di affidare la figlia all’amico Stéphane Mallarmé e di regalare gran parte dei suoi lavori agli amici. Morì il 2 marzo.

Riposa nella tomba della famiglia Manet nel cimitero di Passy. Sulla sua lapide la scritta: “Berthe Morisot, vedova di Eugéne Manet”. Non Compare alcun accenno alla sua apprezzabile carriera di pittrice. Il suo certificato di morte reca la dicitura “senza professione”.

È fuori dubbio che alla base dell’impressionismo ci sia stato il principio fondamentale che ruota intorno alle opere della Scuola di Barbizon, piccolo villaggio nella Foresta di Fontainebleu, dove il fondatore Théodore Rousseau si stabilì per dipingere in libertà osservando la natura dal vero. Altri artisti poi, attratti dall’approccio innovativo del plein air, vi si raccolsero nello spartano albergo di pére Ganne, fra i quali Camille Corot. Essi volevano cogliere i cambiamenti della luce (ispirandosi in parte ai pittori fiamminghi e olandesi del seicento) e le sfumature del paesaggio, ma le loro opere, contrariamente a quelle degli impressionisti, non venivano completate all’aperto, ma nel chiuso dello studio.

A dare piena libertà alla pittura impressionista fu anche l’innovazione, introdotta da Jhon Rand nella fornitura del colore ad olio in tubetti di stagno, perfetti per la conservazione prolungata.

Renoir stesso dichiarò: “senza i tubetti di colore non ci sarebbero Cézanne, Monet, Sisley o Pissarro, niente di ciò che i giornalisti avrebbero chiamato Impressionismo”.

 La pittura impressionista suscitò scandalo fino al momento in cui il suo linguaggio, lontano dalla storia, dal mito e dalla religione, fatto di attimi fuggenti e di evocazione di valori istantanei di luce non fu pienamente assimilato.