Alle radici dell’antigiudaismo cristiano

Giovanni Filoramo
Professore emerito di Storia del cristianesimo
Università di Torino

1. Una precisazione terminologica: perché dal punto di vista storico, nel caso del cristianesimo antico e delle origini di cui mi occuperò, è preferibile parlare di antigiudaismo e non di antisemitismo. Quest’ultimo è un termine moderno che si riferisce, in senso stretto, a una ideologia razzista diffusasi in Francia e Germania negli ultimi decenni del XIX secolo, in base alla quale i Giudei, in quanto semiti, rappresenterebbero una razza particolare, in grado di mettere in pericolo la cultura e la vita dell’Europa.

“Antigiudaismo” è un termine più antico, che si radica nella polemica contro i giudei portata avanti da autori cristiani a partire grosso modo dalla metà del II secolo e che ha trovato un luogo classico di espressione in una serie di trattati Adversos judaeos, di cui il primo risale a Tertulliano ed è stato redatto alla fine del II secolo ev. Esso ha una base essenzialmente teologica e religiosa, e non ha a che fare con teorie razziste, ignote al mondo antico.

2. La teoria della sostituzione: anche se l’antigiudaismo del Nuovo Testamento ha dei precedenti in una diffusa giudeofobia presente nel mondo ellenistico-romano in cui l’annuncio cristiano si è diffuso, quel che ora deve interessarci è la sua peculiarità. Dal punto di vista ideologico, la radice dell’antigiudaismo cristiano è la teoria della sostituzione. Essa è stata elaborata a partire dalla metà del II secolo e, attraverso correzioni e adattamenti, è rimasta patrimonio dottrinale delle chiese cristiane fino al XX secolo. Essa può essere riassunta in questi termini:

Il cristianesimo porta a compimento le promesse fatte da Dio agli ebrei nell’Antica Alleanza. La religione ebraica – l’ebraismo – enfatizzava la fedele adesione alla legge (Torah) come modo di vita, ma, col passare del tempo, venne guastata dal legalismo, esemplificato dai farisei. Il modo di amare di Gesù, in contrasto con la legge degli ebrei, minacciava le autorità giudaiche. Sebbene tecnicamente sia stato il governatore romano della Giudea, Ponzio Pilato, ad autorizzare la crocifissione, furono gli ebrei a insistere perché Gesù fosse messo a morte. Benché il Nuovo Testamento rappresenti Gesù come un ebreo di Nazaret, in Galilea, la discesa dello Spirito Santo a Pentecoste, cinquanta giorni dopo la sua morte e resurrezione, significò la nascita del cristianesimo. Per questo, quando pensiamo alla prima generazione di discepoli di Gesù – compresi Pietro, Giacomo e Maria Maddalena – pensiamo a loro come a cristiani e a membri originari della Chiesa, ormai distinta dalla Sinagoga. L’apostolo Paolo, convertito dall’ebraismo, aiutò a diffondere, in tutta la regione mediterranea, il cristianesimo, che si affermò rapidamente mentre l’ebraismo declinava

Questa visione teologica non è storicamente fondata. Lo si vedrà meglio proseguendo, ma sin d’ora si può sottolineare l’implausibilità storica di alcuni punti:

– la visione di Israele è errata: ad esempio, Gesù, da pio ebreo, se rispetta la legge, dalla tradizione dei padri deriva il comandamento dell’amore

– il responsabile della morte di Gesù è il governatore romano

– con la pentecoste non si forma nessuna chiesa istituzionale

– Paolo non diffonde il cristianesimo che non esiste ancora

La teoria della sostituzione, in conclusione, è un costrutto teologico privo di fondamento storico.

3. Il problema delle origini del cristianesimo: l’elaborazione di una teoria dell’antigiudaismo presuppone che ormai il cristianesimo si sia staccato dalla sua matrice giudaica e si sia costruito come una religione a sé, di cui l’antigiudaismo costituisce un fattore identitario essenziale. Ma quando è avvenuto veramente ciò? Oggi le ipotesi variano notevolmente: dalla metà del II secolo alla svolta costantiniana. Anche se personalmente propendo per la prima ipotesi, una cosa è evidente: non solo Gesù e i suoi discepoli, ma anche i suoi seguaci delle prime generazioni sono rimasti giudei. Anche se già con Paolo inizia una missione ai gentili e si pone il problema di convertirsi o meno al giudaismo per poter essere seguaci del Cristo, le polemiche contro i giudei che si trovano nel NT non sono polemiche di ‘cristiani’, che non esistono ancora, contro giudei, ma tipiche polemiche intragiudaiche.

Detto in altri termini: il movimento di Gesù è un movimento interamente giudaico. Il cristianesimo inizia come un movimento di riforma giudaico; i conflitti formativi sono con il giudaismo del tempo. Gesù, oltre che un rabbi, è anche un profeta che parla come un profeta: l’intensità delle sue accuse, per esempio contro i farisei, si spiega bene col desiderio che il suo popolo si penta.

4. Quadro storico: il movimento di Gesù fa parte di un mondo giudaico molto vario e dinamico. Il giudaismo rabbinico, così come noi lo conosciamo, è di là da venire: la sua storia corre parallela alla formazione del cristianesimo come religione.

Il giudaismo palestinese del tempo di Gesù vive in un quadro politico particolare. Dal 6 della nostra era la Palestina era diventata una provincia romana, che faceva parte della Syria. La governava un procuratore, come poi sarà Ponzio Pilato. Vari gruppi presenti. Uno di questi è costituito dai seguaci di un rabbi e profeta, Gesù.

5. Le fonti: il Nuovo Testamento: i testi del Nuovo Testamento sono disseminati di affermazioni polemiche e violente nei confronti di gruppi ebraici. Queste affermazioni vanno storicamente contestualizzate. Dato il valore canonico che questi testi hanno poi assunto, esse sono ben presto state rilette in prospettiva antigiudaica. Per secoli – per non portare che un esempio – questi passi sono stati letti e commentati nel ciclo liturgico cristiano. Soltanto con il Concilio Vaticano II e la dichiarazione Nostra Aetate si è posto fine a questo uso antigiudaico

6. Gli esempi più significativi di antigiudaismo presenti nel Nuovo Testamento sono certi testi di Paolo come I Tessalonicesi 2, 14-16: « Voi infatti, fratelli, siete diventati imitatori delle Chiese di Dio in Gesù Cristo, che sono nella Giudea, perché avete sofferto anche voi da parte dei vostri connazionali come loro da parte dei Giudei, i quali hanno perfino messo a morte il Signore Gesù e i profeti e hanno perseguitato anche noi; essi non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini, impedendo a noi di predicare ai pagani perché possano essere salvati. In tal modo essi colmano la misura dei loro peccati! Ma ormai l’ira è arrivata al colmo sul loro capo. » e le accuse di deicidio (Matteo 27, 22-23) oltre a un passo del Vangelo di Giovanni 8, 30-47, in cui, nella sua polemica contro i giudei, Gesù li accusa di essere “figli del diavolo”.

Questi passi vanno adeguatamente contestualizzati, tenendo presente le vicende del movimento dei seguaci di Gesù nel periodo in cui questi testi sono stati composti cioè grosso modo dalla metà del I secolo agli inizi del II. In questo periodo la data decisiva è il 70, con la guerra giudaica e la distruzione del Tempio che ne seguì. Mentre Paolo scrive prima di questo evento, i vangeli canonici sono tutti redatti successivamente.

Mentre le lettere considerate autentiche di Paolo sono documenti che riflettono il pensiero in divenire del loro autore e sono condizionate dal rapporto con le differenti comunità a cui si rivolge, i vangeli sono scritti che riflettono la particolare rilettura delle vicende di Gesù che differenti comunità hanno operato. Mentre nel primo caso i conflitti sono tipicamente intragiudaici – tanto che diventa difficile usare in questo caso il termine ‘antigiudaico’ – nel secondo caso siamo in una tipica fase di separazione delle vie: le comunità dei seguaci del Cristo, che cominciano a essere definiti ‘cristiani’, sono comunità miste in cerca di una propria identità, alternativa a quella ebraica d’origine, che non può funzionare per il numero crescente di gentili che ne fanno parte. Fu tra gli anni Settanta e i primi anni del II secolo che la rivalità tra gli altri gruppi ebraici e i Seguaci della Via (ormai diventati un gruppo misto di ebrei e gentili) andò aumentando. Discutevano su quale fosse il cammino più fedele a Dio: quello della Torah o quello di Gesù? Dal momento che questa fu anche la cornice temporale in cui vennero composti i quattro Vangeli, alcune delle tensioni legate a simili dibattiti trovano riflesso in brani evangelici quali la diatriba contro i farisei in Matteo 23 o la frequente identificazione degli “ebrei” come principali oppositori di Gesù nel Vangelo di Giovanni. In altri termini, gli autori dei Vangeli inserirono le dispute del tempo nel proprio resoconto del ministero di Gesù; in questo modo, le controversie del tardo I secolo e degli inizi del II secolo finirono con l’entrare nelle ricostruzioni di ciò che Gesù aveva detto e fatto. L’acceso linguaggio di questi testi riflette le convenzioni retoriche tipiche dell’antichità, in cui la denigrazione dell’altro era una forma d’arte. Ciò che le successive generazioni non riuscirono a comprendere, in ogni caso, è che si trattava di contrasti intra-familiari, non di controversie tra “cristiani” contrapposti a “ebrei”.

Porto solo un esempio. Nel racconto postrisurrezionale di Giovanni si dice: «Quando giunse la sera di quel giorno, il primo della settimana e le porte della casa dove si trovavano i discepoli erano chiuse per paura degli ebrei, Gesù venne e stette in mezzo a loro e disse: “La pace sia con voi”» (Giovanni 20,19). Ora, i discepoli erano tutti ebrei: come facevano ad avere paura degli ebrei? qui si tratta di una tipica rilettura del redattore, che riflette un periodo diverso di conflitti e il suo peculiare antigiudaismo.

Camminare Insieme ai tempi del COVID

Giulio Fornero
Direttore sanitario di Camminare Insieme

Camminare Insieme: chi siamo?

L’associazione Camminare Insieme nasce nell’aprile del 1993 con l’intento, condiviso da un gruppo di persone provenienti sia dalla realtà delle comunità parrocchiali torinesi sia da ambienti laici, di fornire assistenza medica qualificata e gratuita a tutti coloro che non possono usufruire del Servizio Sanitario Nazionale, manifestando in tal modo la propria solidarietà verso i più poveri ed emarginati.
Il progetto della Camminare Insieme è dunque, fin dal suo avvio, affrancato da qualsiasi logica di appartenenza politica o religiosa.
Proprio all’inizio degli anni Novanta cominciano a manifestarsi a Torino, in maniera sempre più evidente, i primi problemi legati al fenomeno dell’immigrazione: la tutela della salute degli immigrati, regolari e non, viene individuata dall’associazione come la priorità alla quale fare fronte e dedicare energie e risorse, umane e materiali.
L’associazione, fin dall’inizio, ha potuto contare sull’aiuto concreto, oltre che di molti volontari e simpatizzanti, dell’Opera Pia Barolo, che allora mise a disposizione i locali dell’Ospedaletto di Santa Filomena (fatto erigere nel 1834 dalla marchesa Giulia di Barolo per la cura dei più poveri), e dove ancora oggi l’associazione ha sede, e di Specchio dei Tempi il cui generoso finanziamento consentì di avviare la vera e propria attività ambulatoriale. Dal 1998 la Compagnia di San Paolo è il principale sostenitore dell’attività dell’associazione e il suo costante e cospicuo finanziamento ha permesso di prestare assistenza sanitaria a 50mila pazienti.

L’associazione Camminare Insieme promuove, coordina, indirizza e svolge iniziative finalizzate all’assistenza sanitaria e sociale delle persone più indigenti, cittadini italiani e stranieri.
L’associazione offre i propri servizi gratuiti ai soggetti segnalati dagli enti preposti al compito di prima accoglienza così come dai servizi sociali. La Camminare Insieme, inoltre, allaccia e mantiene rapporti di collaborazione con i competenti organi per promuovere norme e provvedimenti volti a favorire la tutela delle categorie maggiormente svantaggiate e a rischio di esclusione sociale.
L’associazione svolge le proprie attività nell’ambito del Distretto Sociale Opera Barolo.

Assistenza sanitaria

L’associazione Camminare Insieme offre prestazioni sanitarie di medicina generale e specialistiche (sono presenti sp gratuite a coloro, italiani e stranieri, che non possono accedere al Servizio Sanitario Nazionale.
Il personale medico e infermieristico presta la propria attività sotto forma di volontariato.
La sala d’attesa, l’accettazione, la segreteria, gli ambulatori, i locali per la sterilizzazione e il deposito dei farmaci sono tutti ubicati presso la sede dell’associazione, in via Cottolengo 24.

Camminare Insieme partecipa ai programmi regionali di screening per la cervice uterina, mammografici e colorettali.

Assistenza sociale

L’associazione Camminare Insieme, nel corso del tempo, ha ampliato il proprio ambito di impegno e di intervento, offrendo anche un supporto concreto sul versante delle attività socio-assistenziali.
Il Centro Salute Mamma e Bambino, è un luogo di incontro e aggregazione, di ascolto e sostegno, in cui le donne si trovano anche tra di loro e possono, in un ambiente accogliente e protetto, condividere il proprio tempo, anche insieme ai figli; è divenuto una risorsa e un punto di riferimento nel tessuto sociale urbano, grazie a operatrici, mediatrici e volontarie pronte ad accogliere e ad ascoltare, a sostenere e a facilitare i percorsi di vita talvolta molto complicati e particolarmente difficili di donne provenienti da Paesi lontani, non solo geograficamente, ma anche per cultura e tradizioni.
Oltre all’attività di accoglienza e al sostegno/accompagnamento alla fruizione dei servizi sociali e sanitari, sono diversificate le attività che vengono offerte alle ospiti del Salone: Spazio Bimbi, Banco Alimentare, Laboratori, Percorsi formativi, Corsi di lingua italiana, Progetto Orto

Il Salone, infine, è anche un luogo di aggregazione dove si svolgono numerose feste nell’arco dell’anno, nel profondo rispetto dei momenti più salienti legati anche alle varie appartenenze religiose di tutti coloro che lo frequentano: Natale, Pasqua, Carnevale, Ramadan, Estate, Primavera…
Al Salone le festività assumono un valore per ciascuna cultura, un valore che anziché isolare crea occasioni gioiose di condivisione e conoscenza.

Volontari

I volontari dell’associazione svolgono attività medica e infermieristica, di assistenza sociale o di tipo amministrativo

Camminare Insieme al tempo del COVID

Procedure di prevenzione/controllo COVID 19

La pandemia in corso ha portato anche nell’associazione Camminare Insieme nuove procedure di prevenzione/controllo COVID 19.

Si è reso necessario, per evitare la diffusione del contagio, evitare la presenza contemporanea di un numero elevato di persone, mantenere le distanze di sicurezza e utilizzare correttamente i DPI.

Si sono incentivati canali di comunicazioni con le persone assistite alternativi all’accesso mediante l’uso di e-mail, chiamate telefoniche, videochiamate, sms e si è attivato un servizio di “Prenotazione telefonica e triage telefonico”,con lo scopo di fornire informazioni sui servizi sanitari, fare un triage telefonico, sia per quanto riguarda la tipologia della richiesta, sia per lo screening del rischio di infezione SARS-CoV-2 e prenotare le visite necessarie. L’attivazione del servizio è stato preceduto da un corso di formazione del gruppo di persone (dipendenti e volontari) dedicato.

Per quanto riguarda la struttura, sono stati necessari lavori di adeguamento (ora completati) degli impianti di climatizzazione senza ricircolo aria interna e con ricambi d’aria come da normativa.

Nuovi obiettivi

Progetto Torino Street Care (TSC)

Camminare Insieme ha aderito al Progetto Torino Street Care (TSC) con cui l’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri (Omceo) di Torino e le Associazioni Camminare Insieme, Rainbow for Africa, Comitato Collaborazione Medica-Amref, World Friends e Danish Refugee Council hanno deciso di prendere in carico la sorveglianza epidemiologica dell’infezione da SARS-CoV-2, effettuando tamponi rapidi sulla popolazione più fragile di Torino e dell’Area Metropolitana. Attività a favore di migranti e senzatetto per le strade di Torino e cintura dove, oltre al tampone, sono state assicurate visite, medicazioni, coperte, minestra e bevande calde.

Dall’inizio dell’attività di TSC 2.0 (dicembre 2020), i teams misti hanno effettuato interventi di screening presso: Camminare Insieme, Gruppo Abele Dormitorio via Pacini, Spazio popolare Neruda, Centro antiviolenza E.M.M.A., Mensa Sacro Cuore, Fondazione difesa dei fanciulli, Caritas Bussoleno, Casa del Quartiere di via Morgari.

Durante tale attività sono state eseguite anche prestazioni mediche vere e proprie nei confronti di persone presenti nelle strutture con visita ed eventuale distribuzione di farmaci: medicare un piede diabetico o una ferita, risistemare una terapia, somministrare un antidolorifico, indicare la sede dei centri ISI o del Consultorio Familiare. A volte il consiglio richiesto non è sanitario, ma sociale, legale o burocratico.

Vaccinazioni anti COVID-19

Da inizio gennaio, Camminare Insieme, in accordo con l’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri (Omceo) di Torino e con le altre associazioni coinvolte nel progetto Torino Street Care, si è messo a disposizione anche come soggetto vaccinatore. Quindi i volontari hanno partecipato ai corsi per vaccinatore presso le strutture dell’ASL Città di Torino; sono sottoposti a vaccino tutti i volontari partecipanti, in analogia con gli operatori del SSN.

Dall’inizio di aprile, è stata avviata l’attività di collaborazione di Camminare Insieme, Omceo e altre associazioni per il programma vaccinale regionale, a partire dalla ASL Città di Torino.

Collaborazione con Centro Accoglienza Unica Via Sacchi 47, Ambulatorio Via Sacchi 49, Centri Accoglienza H24 e H12 Città di Torino, interventi di prossimità per le persone senza fissa dimora

Dal mese di febbraio è stata progettata, e dal mese di marzo è avviata, la collaborazione con la Città di Torino presso i Centri di Accoglienza e per interventi di prossimità per le persone senza fissa dimora, con l’ausilio di un ambulatorio mobile.

Camminare Insieme offre la disponibilità per collaborazione e consulenze mediche specialistiche, sanitarie, assistenziali e di mediazione culturale presso i Centri di Accoglienza e presso la sede del Poliambulatorio in Via Cottolengo 24/A.

L’intervento di prossimità è rivolto a gruppi di persone senza fissa dimora che abitualmente si aggregano spontaneamente in luoghi dove vengono erogati servizi essenziali quali mense, bagni pubblici, distribuzione di abiti e pacchi alimentari.

Il progetto mira attraverso l’assistenza socio sanitaria di soggetti in situazione di vulnerabilità, a prevenire, o far rientrare, situazioni di marginalità che stanno alla base di disuguaglianze socio economiche e sanitarie e a favorire l’inserimento abitativo o in singoli appartamenti o in strutture più ampie che salvaguardino la scelta delle singole persone.

Cure domiciliari materno infantili

È un’azione progettata in accordo con il Dipartimento Materno Infantile della ASL Città di Torino, dedicata al sostegno per l’allattamento al seno, accompagnamento allo svezzamento e alla crescita del bambino nei primi tre anni di vita per aumentare la consapevolezza della positività dell’allattamento al seno almeno nei primi sei mesi di vita del bambino, supportando le donne dal periodo di gravidanza anche, e specialmente, con interventi domiciliari e accompagnamento all’utilizzo dei servizi offerti dai consultori ASL.

Prossimità digitale

Il progetto si propone come obiettivi:

  • Fornire strumenti di sanità digitale per l’assistenza socio-sanitaria gratuita domiciliare e ambulatoriale a persone senza diritti e indigenti in una logica di prossimità;
  • Costruire un modello per l’uso delle nuove tecnologie a supporto della Sanità a favore di tutti i cittadini

Destinatari del progetto saranno persone che accedono a Camminare Insieme, sia per iniziativa propria, sia individuate e segnalate dal Servizio Sanitario Regionale e dai Servizi Sociali, dai Consultori Familiari e Pediatrici e dai Servizi Sociali Ospedalieri presenti nel Comune di Torino, dalla rete di Enti del Terzo Settore e identificati grazie al lavoro di tutti i comuni della Città Metropolitana di Torino.

Si farà riferimento al disegno della Sanità Digitale in Regione Piemonte.

In prospettiva la buona riuscita del progetto può sostenere un processo di diffusione dell’assistenza domiciliare per tutto il territorio della Città Metropolitana di Torino.

Le signore dell’arte

Marilde Bordone
Insegnante di Storia dell’Arte

Nei testi e nei manuali scolastici di Storia dell’arte le donne sono quasi sempre state le grandi assenti; per molto tempo, e a mala pena, ne sono stati segnalati i nomi, senza concedere loro uno spazio di approfondimento per quel che concerne i caratteri, le opere, lo stile.

Solo negli ultimi decenni si è cominciato a far luce su alcune personalità di altissimo profilo. Per secoli sono rimaste “presenze invisibili”, rinchiuse fra le mura di casa o di un convento, dedite a quelle che venivano considerate “arti minori” come la miniatura, la tessitura o il ricamo.

Nel Medioevo veniva loro proibito di intraprendere ogni tipo di apprendistato presso le botteghe d’arte, considerate luoghi pericolosi per le donne. Si possono citare rarissime eccezioni: Marietta, figlia del grande Jacopo Robusti detto il Tintoretto, veniva accompagnata dal padre in quegli ambienti prudentemente vestita in abiti maschili.

Il grande biografo Giorgio Vasari in una pagina delle “Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori” scrive: “Gran cosa è che in tutte quelle virtù e in tutti quegli esercizi né quali, in qualunque tempo hanno voluto le donne intromettersi… siano sempre riuscite eccellentissime… come una infinità di esempi agevolmente può dimostrarsi a chi non lo credesse”. A tal proposito cita la scultrice bolognese Properzia de’ Rossi (1490-1530) che viene ricordata per la sua abilità nell’intagliare minuscole scene complesse su noccioli di ciliegia, definendola “di capriccioso e destrissimo impegno”. Tale artista inoltre ha avuto lo straordinario onore di eseguire per il duomo di San Petronio due pannelli in marmo con scene testamentarie. La scultura soprattutto era considerata arte non idonea al delicato genere femminile.

Proprio a Bologna, prima di Properzia, un’altra figura si era distinta nel mondo dell’arte: Caterina dé Vigri (1413-1463). Educata alla Corte di Ferrara, centro di cultura umanistica, alla morte del padre si ritira in convento; poco si conosce della sua produzione artistica ma è documentata la sua prosa in latino. Caterina incarna due modelli femminili: quello medioevale di badessa colta e quello della donna di Corte rinascimentale che si occupa di arte, letteratura e musica.

Solo nella seconda metà de Cinquecento però, col pieno dominio del Manierismo, si comincia a parlare di commissioni pubbliche assegnate alle donne.

Lavinia Fontana (1552-1614), bolognese, figlia di Prospero inizia la sua carriera nelle chiese locali di San Giacomo e San Michele in Bosco. È l’unica a quei tempi a ottenere una commissione, a stabilire un prezzo per i suoi quadri (i contratti li firmava il marito poiché fino a quel momento le pittrici venivano ricompensate con doni). Al marito, anche lui pittore, pose inoltre come condizione per le nozze di poter rivendicare il suo ruolo di artista continuando a dipingere. Alla Galleria degli Uffizi è esposto un suo dipinto “Noli me tangere” in cui la protagonista dell’incontro con Gesù è una donna, contrariamente a quanto avviene nello stesso tema trattato da artisti come Correggio o Andrea del Sarto.

Lavinia rielabora lo stile del padre, di impronta bolognese con suggestioni del centro Italia, arricchendolo con intenti naturalistici e raffinatezze di derivazione fiamminga, che si evidenziano soprattutto nel repertorio di ritratti, genere nel quale si specializza. Nella ritrattistica prende a modello Sofonisba Anguissola (1532-1625) soprattutto nello studio dei dettagli: trame dei tessuti, ricami, gioielli.

I loro dipinti rimandano alla stessa emotività. Sono entrambe pittrici di anime, in grado di rilevare nella postura delle mani, in un cenno di movimento improvviso, nell’intensità di uno sguardo la fragile transitorietà della dimensione umana.

Sofonisba fu chiamata così dal padre Amilcare a ricordo della figlia del cartaginese Asdrubale, suicida per non cadere nelle mani dei romani. Ebbe il permesso del genitore, assai raro per quei tempi, di studiare pittura sotto la guida di Bernardino Campi che lavorava a Cremona, città natale della giovane.

Vive i suoi novanta e più anni al confine fra le luci del Rinascimento e la linea d’ombra inquietante del Seicento. Nei ritratti le sue intuizioni psicologiche, di impronta leonardesca, la portano a dipingere personaggi in cui fisionomia e stati d’animo si intrecciano. Ricevette lodi dal Vasari che la definì “virtuosa” e da Michelangelo che vide un suo disegno del “fanciullo morso da un granchio”, che per realismo e spontaneità fu forse fonte d’ ispirazione per un olio di Caravaggio.

Famosi i suoi due autoritratti esposti agli Uffizi e al Museo di Storia dell’Arte di Vienna. In quest’ultimo si raffigura compunta, senza accenno di sorriso, ma gli occhi esprimono la consapevolezza del suo ruolo di artista. Anche la presenza di un cavalletto sullo sfondo in un altro autoritratto ribadisce tale convinzione.

Sofonisba acquista grande fama di ritrattista in Spagna dove dimora dal 1559 al 1580. Anton Van Dyck, allievo di Rubens, l’ammirava molto. Ormai novantenne e quasi cieca posò per lui e gli diede preziosi avvertimenti. Molte delle sue opere andarono disperse dopo la morte.

Ma la personalità che più incarna la modernità, la liberazione della donna dal fardello paterno e l’uscita dall’oscurantismo dei pregiudizi maschili e sociali è sicuramente quella di Artemisia Gentileschi, figlia di Orazio Lomi (detto Gentileschi), prima donna a entrare all’ Accademia del Disegno fondata a Firenze nel 1562. La sua vita è solcata da un episodio di stupro da parte di Agostino Tassi, pittore e amico del padre oltre che suo maestro. Tassi è un bell’uomo di trent’anni, sposato, stimato paesaggista e la ragazzina, che fa un mestiere riservato agli uomini, orgogliosa e coraggiosa lo denuncia contro la volontà del padre stesso. Il processo si trascina per mesi con prove, controprove e verifiche umilianti. Tassi viene condannato ma Artemisia deve abbandonare Roma.

La tela da lei dipinta nel 1612-13 “Giuditta che decapita Oloferne” nella sua drammaticità e rabbiosa violenza, esaltata dal luminismo caravaggesco, esprime tutto il dolore subito. La testa di Oloferne è quella del Tassi.

A processo concluso il padre le combina il matrimonio con Pierantonio Stiattesi, modesto artista fiorentino, che le restituisce l’onorabilità perduta agli occhi del mondo. A Firenze Artemisia vende le sue opere e il marito è ben felice del denaro che guadagna.

Artemisia si affranca totalmente dalla tutela paterna e firma i suoi quadri col nome della madre; afferma la propria indipendenza scegliendo di separarsi dal marito nonostante i quattro figli avuti da lui. Rivendica il suo diritto a identificarsi con l’arte nella tela “Autoritratto come allegoria della pittura”, in cui si rappresenta nell’atto di dipingere. Ha al collo un ciondolo a forma di maschera che simboleggia l’imitazione del vero, la sciarpa cangiante sul braccio a indicare la perizia tecnica e un ciuffo ribelle sulla fronte a segnalare il febbrile fervore d’artista.

Altra figura rimarchevole è quella di Fede Galizia (1578-1630), anche lei figlia d’arte, che come Sofonisba ambisce al prestigio sociale. A soli diciotto anni dipinge il ritratto di Paolo Morigia caratterizzato dal particolare del riflesso della stanza negli occhiali del personaggio raffigurato. Dal 1602 si interessa alla natura morta come dimostra un suo dipinto “Alzata con frutti e una rosa”, in cui il colore rosso della pera scolorisce nel rosa sfumato di bianco di un fiore che sta sfiorendo, a indicare la bellezza che lentamente svanisce. Rivela la verità interiore della cosa rappresentata, facendo un uso poetico dell’oggetto-stato d’animo. Muore di peste nel 1630.

In ambito bolognese spicca anche la personalità di Elisabetta Sirani, figlia del pittore Giovanni Andrea, allievo e collaboratore di Guido Reni. Elisabetta, nata nel 1638, si forma nella bottega del padre dal quale apprende i principi teorici e pratici dell’arte. Poiché donna, viene esclusa dalle lezioni di disegno dal vero, ma ciò non le impedisce di portare avanti studi anatomici attraverso statue e dipinti presenti nella galleria del padre che era mercante d’arte e agente della famiglia Medici. Fra le sue prime opere la pala d’altare della “Vergine con Bambino e Santi” per la chiesa di S. Martino a Trasasso e un “S. Antonio da Padova con Gesù bambino”, opera di piccole dimensioni per la devozione privata.

Il suo talento si manifesta nel 1658 nella grande tela (4×5 m) col “Battesimo di Cristo” per la chiesa di S. Domenico della Certosa. Con “Autoritratto come allegoria della musica” e “Giuditta con la testa di Oloferne” si attira l’attenzione dell’élite bolognese e comincia a dipingere per nobili e mercanti, per i principi della famiglia Medici e per il re di Polonia. Si orienta sulla figura femminile, esaltandone il ruolo eroico, nella pittura storica: “Timoclea che uccide il capitano di Alessandro Magno” e “Cleopatra”. Nel 1660 divenne professore della Accademia di S. Luca a Roma e nel 1662 fu la prima donna in Europa a dirigere una scuola femminile di pittura. Delicatissima appare nei toni ambrati la sua trasognata “Maddalena penitente” e molto originale è l’impostazione del suo “Autoritratto mentre dipinge il padre”, quasi a volerne sfidare il ruolo di artista nel confronto diretto.

Fu una delle artiste donne più stimate e apprezzate per il suo stile veloce, caratterizzato da pennellate ampie e da un forte senso del colore e del chiaroscuro. Nel 1664 Cosimo III de Medici si recò in visita nella sua bottega per verificarne il talento. Poco dopo esegue per lui l’opera “Giustizia, Carità e Prudenza”, ricevendo come ricompensa una croce di diamanti. La morte la colpisce prematuramente a soli ventisette anni mentre era all’opera per Vittoria della Rovere, granduchessa di Toscana e per l’imperatrice Eleonora Gonzaga.

Importante fu il suo apporto alla società moderna poiché, con l’apertura della sua bottega, offrì a molte giovani allieve la possibilità di intraprendere la carriera di artista, per lo più preclusa alle donne.

Altra personalità di rilievo in ambiente piemontese è Orsola Maddalena Caccia, figlia del pittore Guglielmo Caccia, detto il Moncalvo. Di Orsola si conosce solo l’atto di morte del 26 luglio 1676 che la indica come ottantenne. I suoi primi interventi pittorici si intravedono nei dipinti del padre verso il 1615. Intorno al 1620 entra nel convento delle Orsoline a Bianzé e nel 1625 si trasferisce nel nuovo convento di Moncalvo, di cui il padre era finanziatore. Quest’ultimo alla sua morte lasciò in usufrutto alle figlie Orsola e Francesca piccoli quadri e disegni come materiale utile alla attività pittorica di entrambe. Di fatto Orsola ripete con sensibilità tutta femminile i temi paterni in dipinti devozionali e in pale d’altare destinate a numerose chiese, non solo piemontesi. La sua pittura riscuote un certo successo presso la corte Sabauda.

Come pittrice non ebbe molta fortuna postuma e solo nel 1964 l’identificazione di alcune vivaci nature morte da lei dipinte (tre delle quali nel Municipio di Moncalvo) ha rinnovato l’interesse degli studiosi per il suo operato.

Rispetto alle prime opere come l’”Immacolata” della parrocchiale di Rosazza e la “Madonna col Bambino” della parrocchiale di Bianzé, in cui è evidente il richiamo diligente alla produzione paterna, nella sua produzione più matura emerge la tendenza a virare la gamma cromatica verso toni freddi e azzurrini. Nelle opere successive la personalità di Orsola diviene sempre più indipendente e i suoi dipinti superano il centinaio, disseminati in diverse località piemontesi: Biella, Casale Monferrato, Castellazzo Bormida, Chieri, Moncalvo. A Torino alla Galleria Sabauda è esposta la sua tela raffigurante S. Lucia.

Quelle elencate sono le personalità più rilevanti del periodo che abbraccia il XVI e il XVII secolo. Ma se ne possono aggiungere altre.

La riscoperta di queste singolari personalità sembra essere lo scopo della mostra “Le signore dell’arte. Storie di donne tra ‘500 e ‘600” che aprirà i battenti in marzo (dopo lunghe forzate chiusure) al Palazzo Reale di Milano.

La nascita dell’Espressionismo

Marilde Bordone
Insegnante di Storia dell’arte

Parigi, fin dalla metà del 1800, detiene in Europa il primato delle arti figurative: è anche la città del piacere, del divertimento, dell’entusiasmo per la tecnica e la scienza.

L’Esposizione Universale del 1900 segna la vittoria del progresso scientifico. La borghesia ne è compiaciuta e vuole essere glorificata e onorata. Le affiches multicolori e i cartelloni pubblicitari che coprono i muri restituiscono l’immagine di una città che è diventata il centro del divertimento e del consumismo ed è capace di attrarre con i suoi locali, i suoi spettacoli e i suoi prodotti, sovrani, principi, finanzieri, industriali e gaudenti di ogni provenienza. Incomincia a diffondersi L’Art Nouveau, stile ornamentale e decorativo, ispirato alle forme della natura che abbellisce gli oggetti e invade tutti i settori dell’arte, da quello urbanistico-architettonico a quello dell’arredamento e delle suppellettili. Esso è lo specchio di una borghesia che aspira a un proprio stile, leggiadro e raffinato. Al benessere dell’aristocrazia e della classe dirigente fanno però da contrappunto le rivendicazioni operaie, gli scioperi e i rigurgiti anarchici, conseguenza dei gravi problemi derivanti dall’industrializzazione e dagli scandali, enunciati dal pieno sviluppo della stampa.

La Germania guglielmina invece, caratterizzata dal rapido sviluppo industriale, dalla corsa agli armamenti e dall’imperialismo, si fonda sull’autoritarismo: nella scuola, nell’ambito famigliare e nella società, regolata da rigide strutture gerarchiche. Sono i giovani a reagire a questo stato di cose: vogliono sottrarsi agli schemi autoritari e alle convenzioni borghesi. Anche la stampa tedesca, dipendente finanziariamente dal governo, è meno vigorosa nella denuncia politica rispetto a quella francese. Il mancato esercizio di una critica radicale contribuisce ad assoggettare il paese e la pubblica opinione agli ideali dell’aristocrazia prussiana e dei circoli capitalistici. Il processo di industrializzazione ha accelerato la trasformazione del paese da struttura agricola e artigiana in struttura urbana e industriale con conseguenze a livello sociale e psicologico, determinando alienazione e frustrazione.

In questo contesto gli Espressionisti prendono le difese dell’uomo, oppresso e angosciato da un tipo di società che sacrifica i valori umani e spirituali a quelli della produzione e del profitto e, per quello che concerne l’arte, si oppongono a ogni interpretazione scientifico-razionalista al fine di affermarne il valore soggettivo.

L’Espressionismo è il primo movimento culturale europeo del Novecento che coinvolge non solo le arti figurative, ma anche la letteratura, il teatro, la musica e il cinema: si sostanzia di presupposti ideologici sollevando una problematica complessa che, oltre all’estetica, concerne l’etica, la religione e la vita sociale. Gli Espressionisti subiscono l’influsso del nichilismo di Nietzsche, della critica sociale di Ibsen e Strindberg, della rivolta di Wedekind contro l’etica borghese attraverso la liberazione degli istinti erotici. Ma nelle loro opere è anche presente l’angoscia di Kierkegaard e il senso di autosacrificio e di tragicità dei personaggi di Dostoevskij.

Intorno al 1910-11 Berlino si avvia a diventare il punto d’incontro delle forze che hanno promosso il rinnovamento dell’arte, della letteratura e del teatro. La loro attività culturale è incentrata attorno alle riviste “Sturm”, che riunisce gli artisti e promuove mostre, e “Acktion” che si distingue per lo spiccato interesse verso problemi storico-sociali.

A Dresda nel 1905 alcuni artisti: Heckel, Kirchner, Schmidt-Rottluff, Pechstein e Bleyl avevano dato vita al gruppo Die Bucke (il Ponte). Più tardi vi aderirà Nolde.

Questo primo movimento ebbe un ruolo di avanguardia nel rinnovamento dell’arte tedesca, liberata sia dall’accademismo che dalla dipendenza dalla sfera di influenza francese. Le varie influenze, da Van Gogh, a Gauguin, a Munch e all’arte negra, vennero elaborate in forma originale dai vari artisti tra i quali Kirchner, che per la sua complessa personalità assunse la posizione di leader del gruppo. Altro centro espressionista fu Vienna che viene sconvolta all’inizio del secolo dalle “pieces” teatrali e dalla pittura di Kokoschka e dalla musica di Schonberg. Vienna farà poi da testa di ponte fra il mondo tedesco e quello slavo, tra Berlino e Praga.

Gli Espressionisti rifiutano la carenza di profondità spirituale, il superficiale ottimismo e la solarità che caratterizzavano la pittura degli impressionisti e, interessati al dramma della condizione umana, privilegiano i contenuti. L’immagine diviene il mezzo per veicolare le inquietudini e i conflitti drammatici dell’uomo con l’ambiente che lo circonda. Hanno comunque recepito numerosi stimoli della cultura figurativa di fine Ottocento: ad esempio di Gauguin non li attraeva l’arabesco decorativo ma il messaggio spirituale, la nostalgia del primitivo, il rifiuto della società ipercivilizzata. La loro attenzione si concentra su artisti come Van Gogh, Ensor, Munch, pittori che in modo diverso hanno visualizzato nelle loro opere i conflitti interiori e il drammatico rapporto col mondo.

Van Gogh ha lasciato in eredità agli Espressionisti il suo rapporto emozionale con la realtà, il valore psicologico e simbolico delle deformazioni cromatiche e prospettiche. Il belga Ensor li influenzò col suo spirito visionario, con la tendenza al grottesco, col gusto per la maschera e con la materia cromatica ricca e intensa (emblematica l’opera L’ingresso di Cristo a Bruxelles del 1888) Il norvegese Munch costituisce l’antecedente più immediato dell’Espressionismo, esplicitando in immagini allucinate i conflitti profondi, le ossessioni, le paure. Il famosissimo L’urlo del 1893 rivela l’ansietà dell’uomo di fronte al mistero della natura: il terrore dell’uomo ridotto a larva echeggia nelle onde cromatiche del cielo e della terra e la prospettiva obliqua del ponte rompe quel ritmo sinuoso e fluttuante creando un drammatico senso di vuoto. L’espressionismo farà suo il processo espressivo di Munch ma non lo renderà attraverso ritmi arabescati, bensì tramite la linea spezzata, aspra, in una visione lacerata e piena di aggressività. Se confrontiamo Pubertà di Munch, che vuole esprimere lo sgomento dell’adolescente per il suo futuro destino di donna alle prese con il flusso della vita, con Marcella di Kirchner si evidenzia come quest’ultimo elimini la concezione simbolica e il senso del mistero attraverso un’immagine più aggressiva, definita con tinte stridenti e solcata da linee dure e angolose.

I dipinti di Ernst Ludwig Kirchner presentano una tesa struttura lineare. Egli pone al centro della propria opera il dramma dell’alienazione dell’uomo nella civiltà meccanizzata, dominata dal ritmo e dal movimento. Distrugge il mito borghese della città gaia. Nelle Donne per strada le figure sono deformate, allungate in una struttura fatta di spigoli e angoli, rinforzata nervosamente dal tratteggio. Le persone, tese e inquiete, passeggiano senza rivolgersi uno sguardo, chiuse nell’amarezza della solitudine.

L’opera di Erick Heckel si caratterizza per una visione più pacata e malinconica della vita che lascia trasparire la sua vicinanza a un’umanità di derelitti e di esclusi, che si stagliano in uno spazio privo di ogni profondità.

Karl Schmidt-Rottluff si caratterizza per l’accentuazione energica del colore e per la riduzione delle forme a schemi geometrizzanti. Tende all’amplificazione monumentale dello spazio entro il quale blocca le figure geometrizzate.

Max Pechstein risente maggiormente dell’influsso dell’arte francese e offre il meglio di sé quando dipinge paesaggi e nudi all’aria aperta, in un ambiente naturale non ancora corrotto dalla civiltà, riprendendo il motivo dell’unità uomo-natura.

La pittura di Emil Nolte è in antitesi con quella di Kirchner. Egli si porta dietro una cultura contadina e la sua arte nasce dal desiderio di un contatto intimo con la natura e col misticismo religioso. Mentre Kirchner opera la demistificazione della realtà sociale con tono dissacratorio e acidità di giudizio, Nolte esprime la sua sentita religiosità. Nella Cena l’artista dà forma al suo spirito visionario. Gli apostoli attorno a Gesù sono rudi e allucinati, personaggi dai lineamenti pesanti e deformi i cui volti vengono trasformati in maschere dolorose. Il Cristo ha un volto estatico e sofferente, privo di ieraticità. L’apparente oltraggio alla scena tradizionale dell’ultima cena è la traduzione di una ricerca di spiritualità più profonda, elementare e primitiva.

Nel 1913 il gruppo Die Brucke si scioglie, attraverso la redazione della cronaca scritta da Kirchner giudicata dai membri troppo soggettiva. L’unità del gruppo era però già stata intaccata dal tempo e dagli orientamenti personali degli artisti.

In un paese come la Germania, che stava compiendo uno dei tentativi più avanzati in Europa di impostare una moderna organizzazione produttiva, gli artisti di Die Brucke ritagliarono per sé un’area protetta dalla quale guardare al mondo moderno osservandolo con occhio critico, alla luce della pura forza creativa dell’individuo e del recupero di culture arcaiche.

Hai vinto un premio, collegati subito!

Fabio Salsa
Consulente finanziario

Nella veste di clienti di servizi bancari stiamo diventando sempre più digitali: la tendenza ha subito una accelerazione dal COVID-19 che ha generato una forte spinta all’utilizzo degli strumenti e dei canali elettronici a distanza e non solo nella fruizione dei tradizionali servizi bancari di pagamento ma anche in quelli di investimento.

In questo contesto le cyber frodi sono in formidabile aumento e in continua evoluzione con utilizzo di tecniche sempre più sofisticate.

Obiettivo del mio contributo è aiutare i lettori a riconoscere le minacce di frode, a proteggersi da queste e soprattutto, se possibile, evitarle.

Descriverò le principali tecniche di frode sulle quali porre la nostra attenzione a cui farò seguire spero utili suggerimenti di buone regole per comportamenti virtuosi.

Il phishing è la tecnica di frode regina delle cyber frodi messa in atto da malintenzionati, definiti phishers, che contattano gli utenti tramite email, sms, WhatsApp o telefonate.

Questi messaggi sono molto simili nella grafica e nel contenuto a quelli che la banca può inviare ai propri clienti e hanno l’obiettivo di catturare informazioni riservate e sensibili.

Tramite questi messaggi potreste essere invitati a cliccare su un link che indirizza a una copia fittizia del sito ufficiale della banca, a scaricare una app fraudolenta, a comunicare in vario modo codici della banca online, dati degli strumenti di pagamento elettronico o informazioni personali.

Come riconoscere un messaggio di phishing?

Occorre porre molta attenzione al contenuto del messaggio: sospettate di avvisi di situazioni particolari come per esempio presunte vincite a fantomatici concorsi, imperdibili offerte di lavoro e omaggi ma in particolare problemi verificatisi con il proprio conto corrente, scadenza delle password di accesso.

Soprattutto sospettate di inviti ad agire su link e aree operative al fine di collegarsi per sbloccare il conto o regolarizzare la propria situazione bancaria.

La richiesta di codici e informazioni con l’invito a inserire i dati e i codici personali, per aggiornare dati anagrafici o verificare posizioni e transazioni effettuate sono per definizione richieste di dati che la vostra banca conosce già benissimo.

Le esche gettate in pasto ai risparmiatori posso essere in particolare le email di phishing: i phishers creano email quasi identiche alle email istituzionali di siti, anche molto noti, per indurre gli utenti a cadere nella trappola.

Valutate l’attendibilità di una email seguendo con attenzione queste regole:

  • analizzate l’indirizzo email del mittente perché non sia sospetto, diffidate cioè di email con mittenti molto lunghi, con caratteri insoliti o che non abbiano, nel caso provengano dalla banca, il nome stesso della banca nell’indirizzo;
  • valutate la presenza di errori nel testo del messaggio poiché spesso i phishers modificano i messaggi inviati dalle aziende per inserire nuovi testi e il link di aggancio al sito fraudolento. Di frequente i phishers operano fuori dall’Italia e in questi messaggi possono esserci errori di grammatica, traduzione o formattazione e la presenza anche di un piccolo errore deve insospettirvi;
  • ponete attenzione a link di pagine esterne nelle comunicazioni istituzionali poiché la banca non inserisce mai link a pagine o applicazioni esterne in cui sia richiesto l’inserimento di dati sensibili o credenziali d’accesso;
  • esaminate con attenzione che la ragione sociale della banca sia riportata in modo corretto, potete sempre verificare la ragione sociale corretta sul sito della banca stessa.
  •  

Ulteriori tecniche di frode sono lo smishing (combinazione delle parole sms e phishing) e il vishing (combinazione delle parole voice e phishing): sono forme particolari di phishing che si basano sull’utilizzo del telefono (via voce o via sms). Tipicamente viene richiesto tramite sms o Whatsapp di comunicare le proprie credenziali di accesso ai servizi online/mobile banking.

I phishers invitano a chiamare un numero telefonico oppure effettuano una chiamata preregistrata con la quale viene chiesta immissione e conferma dei codici di sicurezza.

Come si possono evitare phishing, smishing e vishing?

Accertatevi con cura del mittente della comunicazione cioè verificate l’attendibilità del mittente di email, sms o messaggi WhatsApp: non rispondete mai a messaggi su cui avete dubbi se non siete certi della provenienza, non cliccate sui link e non aprite allegati, e cancellate le comunicazioni sospette.

Non rilasciate mai informazioni al telefono e non comunicate mai a nessuno i vostri codici di sicurezza o altre informazioni riservate, solo eventualmente dopo aver verificato l’identità del vostro interlocutore.

Digitate sempre l’Url del sito della vostra banca direttamente nel browser.

Un ulteriore pericolo per la sicurezza e integrità di dati bancari è costituito dal malware: con il termine malware si intende un software maligno (virus/worm) che può essere installato a insaputa del proprietario sui dispositivi utilizzati per accedere al sito della banca.

Attraverso tali software eventuali malintenzionati possono compromettere la sicurezza delle informazioni e rendere instabili e insicuri i dispositivi.

Occorre dunque tenere sempre aggiornati il sistema operativo, i programmi antivirus e altri software o app presenti sui vostri dispositivi ed evitare assolutamente di installare app di dubbia provenienza o disponibili su store non ufficiali.

Quali possono essere allora le buone regole per comportamenti virtuosi?

Controllate spesso la vostra situazione e verificate di frequente i movimenti del vostro conto corrente e delle vostre carte di pagamento, ormai è possibile farlo ogni volta che volete online o dall’app.

Proteggete i vostri dispositivi aggiornando il vostro programma antivirus e il sistema operativo, non lasciate incustoditi i dispositivi portatili, tablet e cellulare e se possibile non memorizzate le vostre password sul browser, password che è assolutamente utile aggiornare con grande frequenza.

Conservate con cura i codici di accesso alla vostra banca come conservereste le chiavi di casa vostra, non consegnateli a nessuno e soprattutto non date mai seguito a email o telefonate che richiedano di inserire o comunicare informazioni personali come i codici di sicurezza o dati delle carte di credito.

Per potersi difendere in maniera adeguata dalle insidie delle truffe sul web e poterle riconoscere in anticipo bisogna innanzitutto essere consapevoli dei meccanismi con cui esse operano e la prevenzione è la migliore arma per difendersi dalle frodi, di qualunque tipologia.

E sono i comportamenti ad avere il ruolo determinante: prendete il tempo necessario per i controlli appropriati prima di rispondere a qualsiasi comunicazione e sappiate che la vostra banca non vi chiederà mai di comunicare, inserire o confermare dati personali, password o numeri di carta di credito via email, sms, telefono o sui social.

Se avete una minima esitazione su ciò che vi viene chiesto, qualunque sia la modalità, voglio citare, a conclusione, J.K. Rowling da Harry Potter e la camera dei segreti che suggeriva “nel dubbio, vai in biblioteca”.

Ecco, nel dubbio andiamo in banca.

La Direttiva europea 2014/65/UE e la tutela degli investitori

Fabio Salsa
Consulente finanziario

Il prezzo è quello che paghi. Il valore è quello che ottieni

Warren Buffett

La nuova direttiva europea che disciplina i mercati degli strumenti finanziari (Direttiva 2014/65/UE), nota come MiFID II, dall’acronimo inglese di Markets in Financial Instruments Directive, entrata in vigore Il 3 gennaio 2018, ha introdotto numerose e importanti novità nel mondo normativo dell’industria della finanza a tutela dell’investitore.

Mi concentrerò in particolare sulle novità che regolano la consulenza finanziaria tralasciando quelle riguardanti i mercati sebbene anche queste siano particolarmente importanti: per sintesi e spero per maggior chiarezza ho individuato quattro elementi di particolare interesse sui quali porre la nostra attenzione.

LA CONSULENZA FINANZIARIA E I POTENZIALI CONFLITTI DI INTERESSE

Il legislatore europeo ha finalmente deciso di regolamentare il potenziale conflitto di interessi rappresentato dalla presenza di accordi di retrocessione delle commissioni di uno strumento finanziario, come ad esempio i fondi di investimento, fra il soggetto produttore dello strumento (società di gestione del risparmio) e il soggetto distributore/collocatore dello strumento finanziario stesso, cioè la banca.

Il diritto del soggetto che colloca il fondo di avere retrocessa a suo favore una parte delle commissioni di gestione è stato disciplinato prevedendo due modalità ben distinte di svolgimento della consulenza finanziaria.

La prima modalità, definita come consulenza indipendente, più diffusa in paesi come Inghilterra, Svezia, Danimarca, prevede che il cliente debba pagare come corrispettivo del servizio ricevuto il solo costo della commissione di consulenza direttamente alla società che lo eroga, la banca.

In questa modalità al cliente non possono essere attribuiti i costi dei prodotti utilizzati, ad esempio rappresentati dalle commissioni di gestione dei fondi, poiché sostiene già il costo del servizio di consulenza.

Nella seconda modalità, definita come consulenza base, che è quella prevalente in Italia, Francia e Germania, il cliente non paga una commissione di consulenza ma sostiene interamente il costo del prodotto o dello strumento finanziario utilizzato, parte di questo costo verrà retrocesso alla società che eroga la consulenza.

Occorre dunque molta attenzione da parte dell’investitore nel verificare che in ragione della tipologia di consulenza scelta con la propria banca i due costi, della consulenza e del prodotto, non si vadano a sommare poiché la normativa esclude questa ipotesi proprio a tutela dell’investitore.

Invito dunque il lettore a riflettere su quale tipo di consulenza ha acquistato dalla sua banca e se rappresenta quella che a lui corrisponde meglio.

PRINCIPIO DI ADEGUATEZZA

Il principio di adeguatezza è il secondo importante elemento di cambiamento introdotto dalla normativa MiFID II e costituisce il principio che deve guidare gli intermediari nel raccomandare strumenti finanziari adeguati al cliente in relazione ad una serie di parametri che ne definiscono in sintesi il cosiddetto profilo finanziario.

La normativa prevede cioè un obbligo di controllo per il quale la banca deve verificare l’adeguatezza del prodotto finanziario proposto al cliente in termini di rischio/rendimento, non soltanto riguardo il singolo strumento ma riguardo l’intero portafoglio del cliente.

La corretta valutazione dell’adeguatezza degli investimenti ha richiesto una revisione dei questionari di profilazione del cliente, una revisione cioè di quelle interviste al cliente che ne definiscono, in base alle risposte, un profilo finanziario in ordine agli obiettivi del cliente, al suo orizzonte temporale, alla sua propensione al rischio e alle sue aspettative di rendimento.

La nuova normativa ha imposto una valutazione obbligatoria periodica della tolleranza al rischio dell’investitore, della sua capacità di sostenere perdite, delle sue conoscenze ed esperienze in materia di investimenti finanziari.

Invito dunque il lettore a ricordare se e con quale frequenza ha condiviso con il suo consulente finanziario il suo profilo, se ha cioè consapevolmente dichiarato tutto quanto è richiesto alla banca conoscere per svolgere una corretta attività di consulenza.

PRINCIPIO DI IDONEITA’

Per il principio di idoneità gli intermediari finanziari hanno obbligo di garantire che il personale addetto alla consulenza abbia le necessarie competenze per prestare questo servizio e che queste competenze siano certificate da un percorso di formazione periodico e obbligatorio con requisiti standard per tutto il settore.

Questo obbligo si concretizza da parte della banca con una attività di formazione a frequenza annuale che si conclude con un esame di idoneità, cosiddetta certificazione Mifid, che abilita il consulente e rende conforme la sua attività alla normativa.

Invito dunque il lettore a scoprire del proprio consulente finanziario le certificazioni di competenze e le iscrizioni agli albi professionali che lo qualificano e lo abilitano all’attività di consulenza (ad esempio da un profilo pubblico, dal sito di vigilanza e tenuta dell’albo dei consulenti finanziari www.organismocf.it, da un profilo Linkedin).

OBBLIGO DI TRASPARENZA SUI COSTI

Il quarto elemento di grande interesse introdotto dalla normativa MiFID II è rappresentato dall’obbligo di trasparenza sui costi dei prodotti e dei servizi finanziari: la normativa europea impone che tutti i costi vadano rendicontati nel dettaglio al cliente distinguendo tra costi del servizio, costi associati al prodotto e commissioni di retrocessione.

La rendicontazione deve esplicitare sia in termini percentuali che in valore assoluto, secondo uno standard preciso, tutti i costi sia in una fase informativa ex-ante l’operazione da valutare (informativa una tantum) sia in una fase ex-post che invece è periodica e con frequenza obbligatoria annuale (cosiddetto report dei costi).

Ex ante il cliente deve ricevere l’informazione se la consulenza viene effettuata su base indipendente o meno e deve ricevere una serie di informazioni sugli strumenti che comprendono le strategie di investimento proposte e le avvertenze sui rischi ad esse associati.

L’informativa ex-post, il cosiddetto report costi, con cadenza almeno annuale, dovrà fornire dettaglio dei costi sostenuti relativamente ai singoli prodotti e al portafoglio complessivo.

Oltre al report dei costi è previsto l’invio al cliente, almeno su base trimestrale, di una comunicazione che includa il dettaglio degli strumenti d’investimento.

Invito dunque il lettore a recuperare e a rileggere l’ultimo report costi ricevuto dalla propria banca, potrebbe scoprire cose certamente interessanti, forse addirittura sorprendenti.

Quel che ancora oggi può dirci Pirandello…

Roberto Alonge
Già professore di Storia del Teatro e
Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Torino

        Curioso destino, quello di Luigi Pirandello, massimo drammaturgo mondiale del Novecento, contemporaneamente esecrato e idolatrato per ragioni fittizie e tutte filosofiche. Da un lato il rifiuto netto da parte della cultura accademica, a lungo egemonizzata da Benedetto Croce, il quale, da buon filosofo, giudicava paccottiglia para-filosofica gli spunti riflessivi dell’opera pirandelliana, che veniva pertanto respinta in blocco, condannata proprio per quell’imperdonabile peccato originale. E dall’altro lato, la tenaglia che si chiude con il filosofo anti-crociano Adriano Tilgher, il quale, a partire dal 1922, fa pernio proprio sugli gli elementi filosofici interni all’opus pirandelliano per offrirne una completa rivalutazione, che finisce peraltro per imprigionare lo stesso Pirandello, in diversi dei suoi ultimi copioni sicuramente vittima del pirandellismo, l’insieme di quegli insopportabili apriscatole critici per fortuna oggi quasi totalmente scomparsi (la Vita e la Forma, la maschera il volto, il relativismo, uno nessuno centomila ecc. ecc.).

        In ogni caso, a liberare Pirandello da questa assurda morsa filosofica ci ha pensato la critica d’ispirazione marxista che, dagli anni Settanta del Novecento, ha puntato a ricuperare l’immagine di un Pirandello coscienza della crisi, autore borghese ma critico della società borghese, giocato in contrapposizione ai facitori di miti distorcenti e regressivi (in primis D’Annunzio, ovviamente). Il pessimismo fecondo di Pirandello di contro all’ottimismo mistificatorio di D’Annunzio, e pazienza se in realtà la biografia dice che l’Agrigentino era un convinto fascista, non meno del Vate… Resta il fatto che questo grumo di verità ermeneutica è un dato certo, autentico, ormai assimilato, su cui si può contare. Sì, Pirandello – nonostante i suoi occhiali graduati di forte conservatorismo, o forse proprio a causa loro, perché gli opposti estremismi talvolta si toccano e si sovrappongono – ci aiuta a leggere le devastazioni della società del capitale, forse più nella sua narrativa (per esempio nella pregnanza incisiva di talune novelle) che nel suo teatro, ma questo è tutto?

        Direi di no, direi che c’è un intero continente, quasi ancora interamente da scoprire, e questo riposa indubitabilmente sulle pièces, che potrebbero fare dunque la fortuna dei teatranti, se i teatranti avessero un po’ più di gusto e di coraggio. A differenza degli altri tre grandi drammaturghi a cavallo tra Otto e Novecento (Ibsen Strindberg Čechov), nei suoi testi teatrali Pirandello non presenta il protagonista borghese nell’interezza della sua esistenza, pubblica e privata, sociale e individuale, professionale e sentimentale. I suoi personaggi possono anche essere “avvocati”, ma non ci parlano mai delle problematiche lavorative, delle loro ossessioni di carriera, come avviene ad esempio al marito di Nora di Una casa di bambola. Il teatro, per Pirandello, è unicamente l’incontro-scontro tra il maschile e il femminile, ma a un orizzonte più ristretto corrisponde – occorre riconoscerlo – una capacità di scandaglio assai penetrante. L’Agrigentino ha l’abilità e la tenacia rara di infilare il bisturi là dove l’uomo e la donna s’incrociano e si contrappongono, sa mettere a fuoco come pochi il desiderio della donna e il desiderio dell’uomo. Sciascia ha detto che Pirandello è l’autore più femminista della letteratura italiana, e mi pare che abbia ragione. Dietro la barriera protettiva di un linguaggio molto discreto, quasi reticente, forse persino casto, Pirandello riesce a indagare il mistero del piacere femminile, la sua difficoltà, tra frigidità e scatenamento oblioso dei sensi (da Il giuoco delle parti, a Vestire gli ignudi, da Trovarsi a Non si sa come).

Per Pirandello, però, il desiderio femminile è principalmente quello della maternità. A questo proposito c’è un testo pirandelliano da sempre dimenticato, rimosso, che in tutta la mia vita accademica ho continuamente (e inutilmente) proposto a tutti i registi che conosco, grandi piccini e mezzani (Ronconi mi ascoltò e ci fece sopra un laboratorio, ma si fermò lì, senza trasformarlo in vero spettacolo), ed è L’innesto, storia di una moglie borghese, Laura Banti, che nonostante sette anni di matrimonio, non ha figli, perché il marito è sterile. Violentata da un bruto in un parco romano, resta miracolosamente incinta, e combatte una dura battaglia per tenersi il figlio, trionfando sul marito che vorrebbe invece l’aborto. Tralascio per spirito garantista il sospetto che, in mancanza d’inseminazione artificiale, questo stupro, la vittima, se lo sia un po’ cercato, magari inconsciamente, poco importa, e dico che comunque risultano un po’ miracolose, cioè statisticamente assai improbabili, siffatte fortunate coincidenze: basta un solo incontro sessuale perché sia garantita la gravidanza… Non è infatti l’unico caso del teatro pirandelliano: la stessa cosa avviene in altri due testi. Certo – direte voi – tre casi su 42 testi complessivamente scritti da Pirandello sono poca cosa, corrispondono a un indice del 7.14%, ma se li rapportiamo ai testi il cui plot preveda una nascita, abbiamo un rapporto di 3 a 9, cioè un indice rilevantissimo del 33.3%. Meccanismi di questo genere si ritrovano nella Bibbia, per esempio nell’episodio delle figlie di Lot. Un modo però di ribadire che il sesso non costituisce valore in sé, non ha autonomia, è puramente al servizio del dovere procreativo. Tutto questo può stupire in un intellettuale come Pirandello, autore dichiaratamente laico, ma l’inconscio, si sa, è molto più possente del nostro conscio, e nell’inconscio stanno, ben radicati, i convincimenti assimilati nell’infanzia e nell’adolescenza.

L’originalità de L’innesto è dato però dal fatto che il personaggio ha una duplice valenza: c’è in lei la brama della maternità sino alla ferocia, ma c’è anche una morbida capacità seduttiva. Dopo il primo atto che racconta lo stupro, la coppia si ritira nella villa di campagna per un intero mese, sorta di seconda luna di miele che nasconde una progettualità inquietante (far credere al marito di essere lui il padre del bimbo nascituro), per la quale Laura Banti dispiega un’incantevole affascinante sensualità, che dovrebbe interessare qualche attrice brava e ambiziosa.

Assai diverso, invece, il desiderio maschile, decisamente trasgressivo, ma sempre molto nascosto, con mirabolanti occultamenti che hanno impedito sin qui alla critica pirandelliana di vedere tutto il marcio che si annida in Danimarca. I Sei personaggi sono un’assoluta oscenità trionfante, che però nessuno riesce a percepire perché schermata dal marchingegno barocco del cosiddetto teatro nel teatro. Due, essenzialmente, le ossessioni primarie: la pedofilia (abbastanza visibile nei Sei personaggi, ma più sottile e più intrigante in molte novelle dell’ultima stagione del nostro), e una fantasia torbida che amo definire triangolo perverso, costituito da due uomini e una donna, dove il secondo uomo può anche essere rappresentato, nei casi più estremi, da un più ampio gruppo di uomini violenti, una sorta di branco, come diremmo oggi, che molesta la donna sotto gli occhi del suo uomo, apparentemente in sofferenza, ma segretamente in eccitazione erotica (e qui, sempre in ordine cronologico, almeno quattro i testi di riferimento, Il giuoco delle parti, Sei personaggi, La signora Morli, una e due, Lazzaro). Ovviamente non sono fantasmi solo pirandelliani, appartengono in pieno a espressioni alte della cultura occidentale, che si è sempre presa il diritto di dire anche verità sgradevoli, benché politicamente non corrette. Per la pedofilia (intrecciata all’incesto) si può partire dal decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio, là dove tratta degli amori di Mirra. Per il triangolo perverso forse il mito fondatore è Tartufo di Molière, ma il filo rosso passa per The Country Wife di William Wycherley e arriva a Le venin (1927) di Henry Bernstein, autore ebreo, fatalmente attento alle novità di quella scienza ebraica che è la psicanalisi. In verità scrittore grossolano, ma che ha indubbiamente il merito storico di aprire la scena europea alle tematiche della psicanalisi, inventando situazioni incentrate sulle più torbide articolazioni dell’animo umano, sugli istinti oscuri della perversione. La critica francese ne prende atto e comincia per tempo a utilizzare il termine sessualità, al posto del vecchio sostantivo amore, sebbene cerchi a sua volta di proteggersi, innalzando un’aggettivazione che definisce via via gli intrecci di Bernstein come perversi, morbosi, malsani, torbidi.

Particolarmente illuminante – per il nostro discorso su Pirandello – quanto accade a proposito della pièce intitolata Le venin, il cui protagonista maschile, apparentemente geloso al massimo grado, costringe la propria amante, Françoise, a confessargli di avere avuto rapporti con ben cinque uomini; dopo di che la colpisce con un potente schiaffo, salvo chiudere l’atto facendo l’amore con lei. In realtà – come comprende subito la critica francese del tempo – non è affatto sicuro che sia andata davvero così. È probabile che la donna sia stata costretta a inventarsi tradimenti mai avvenuti, e solo per soddisfare i gusti bizzarri del suo uomo, il quale si eccita – esattamente come Guido Venanzi del pirandelliano Il giuoco delle parti (1918) – a immaginarla oggetto sessuale nelle mani di altri uomini. Il bello è che quando la sua pur amatissima Marta Abba, nel 1928, sembra interessata al personaggio di Françoise, e medita di poter mettere in scena Le venin, il Maestro risponde con stupore e con viva indignazione, osservando che il personaggio “è soltanto una bestia lasciva e spudorata, la quale scazzottata dall’amante dopo averla costretta a raccontargli certe turpi enormità con cinque uomini, alla fine conclude l’atto con lui in una maniera che non ti dico”.

Il che significa che Pirandello non si rende conto di aver scritto, lui, un decennio prima di Bernstein, con Il giuoco delle parti, la stessa storia, ferma restando la diversa qualità di scrittura, essendo Le venin opera stilisticamente corriva, perché troppo esplicita, eccessiva, gridata, ma di cui il nostro precorre motivi e sviluppi. Non solo, Pirandello si rivela più avanti di Bernstein, più audace: il suo Guido non ha bisogno della foglia di fico della falsa gelosia del protagonista di Bernstein: rimane dietro la porta a origliare e a guardare dal buco della serratura la sua donna insidiata da quattro giovinastri. Il pubblico italiano del tempo (ancora molto pre-freudiano) non capì, non accettò e fischiò sonoramente Il gioco delle parti, condannando per un cinquantennio al silenzio quello che è (forse) il capolavoro assoluto di Pirandello, sino alla riscoperta operata da De Lullo-Valli-Falk nel 1965. S’intende che Pirandello procede per forza di intuizione poetica, se posso usare questa espressione. L’Agrigentino è un intrepido esploratore del cuore di tenebra dell’animo umano, ma lo è a sua insaputa, come accadde al famoso ministro berlusconiano, cui fu regalato un appartamento con vista sul Colosseo di cui non aveva contezza. Pirandello è un gentiluomo del Sud, assai conservatore, omofobo e persino anti-ebraico, che conosce poco Freud, di cui parla male, ma poco importa. Come ha scritto lo stesso Freud, gli artisti “hanno la sensibilità necessaria per percepire negli altri i moti reconditi della psiche e il coraggio di lasciar parlare il proprio inconscio”.

        Spero di essere stato chiaro. In ogni caso, per eventuali approfondimenti, mi permetto di rimandare al mio Discesa nell’inferno familiare. Angosce e ossessioni nel teatro di Pirandello (Torino, Utet Università, 2018), e, per un allargamento della prospettiva – al di là di Pirandello, che coinvolga l’intero orizzonte della cultura occidentale – al mio recente Dacci oggi il nostro desiderio quotidiano (Bari, Edizioni di Pagina, 2021).

La peste

Paolo Bertinetti
Già preside della Facoltà di Lingue dell’Università di Torino

William Shakespeare incominciò a scrivere Romeo e Giulietta prudentemente chiuso in casa. Fuori imperversava la peste e i teatri, come sempre si faceva a Londra durante le epidemie, erano chiusi. Gli assembramenti, chiara causa di contagio, erano assolutamente da evitare (anche se il Cardinal Borromeo non lo sapeva e con la processione organizzata per chiedere l’intercessione divina collaborò drammaticamente alla diffusione dell’epidemia in quel di Milano nel 1630). Quell’anno, a Londra, la peste passò abbastanza rapidamente e con meno danni di altre volte, “soltanto” 15.000 morti. Non fu letale come era stata quella del 1563, che a Londra fece 30.000 morti, circa un sesto della popolazione, e che nella primavera successiva, quando arrivò a Stratford, la cittadina in cui proprio in quell’anno Shakespeare era nato, portò alla tomba quasi un terzo dei suoi abitanti. Cure e medicine non ce n’erano: l’unica misura era quella di stare chiusi in casa; e sperare in Dio (senza fare processioni).

Per decenni Londra e l’Inghilterra furono colpiti dalla peste. Tremenda fu quella del 1603, quando i morti furono 36.000, più di un sesto della popolazione. E un’altra seguì, nel 1606, un’altra ancora nel 1608-09. Ma forse la più micidiale, almeno tra quelle di cui disponiamo maggiori dati, fu quella del 1665 e 1666, che all’epoca molti attribuirono a una sorta di punizione divina dovuta al fatto che era stata restaurata la monarchia e che Sua Maestà era amico dei cattolici (per la verità che la peste, o qualche altra epidemia, fosse un flagello di Dio, qualcuno lo diceva sempre; e nel recente passato qualcuno l’ha detto a proposito dell’AIDS).

Il resoconto più straordinario della micidiale pestilenza del 1665 è il Diario dell’anno della peste di Daniel Defoe, che all’epoca aveva soltanto cinque anni e che quindi diede forma romanzesca (seppure sulla base della documentazione esistente) alle vicende di quell’annus horribilis. Un finto diario, insomma, attribuito a un personaggio di fantasia che raccontava in prima persona la sua esperienza personale all’interno della tragedia che aveva colpito la città.

C’è tuttavia un vero diario che racconta la peste del 1665, quello di Samuel Pepys, un importante funzionario dell’amministrazione inglese. Pepys, figlio di un sarto, era nato a Londra nel 1633 e aveva frequentato l’università a Cambridge, dove si era laureato nel 1654. Aveva incominciato a scrivere il suo diario il 1° gennaio 1660, pochi mesi prima di accompagnare suo cugino nei Paesi Bassi, in una missione che aveva lo scopo di organizzare il ritorno in Inghilterra, e sul trono, di Carlo II. Immediatamente fu compensato con un buon posto presso il Navy Board, quello che possiamo considerare il Ministero della Marina, ottenendo il primo dei posti ben remunerati che ricoprì nel corso degli anni.

Il suo diario è ricco di pettegolezzi sull’ambiente di corte e altrettanto ricco di annotazioni sul proprio carattere e sulle proprie abitudini. Non si nasconde dietro la facciata del bravo funzionario e del bravo marito: “la cosa più importante per me è il mio piacere personale, non posso rinunciare al vino e alle donne”. Verissimo: ha, ad esempio, un’avventura extra-coniugale poco prima dello scoppio della peste, si mostra pentito, ma poi, subito dopo, ricomincia a cercare “il piacere personale”.

Una cosa che lo preoccupa, adesso che è chiaro che l’epidemia si è scatenata, è il fatto di avere comprato da poco una bella parrucca con cui esibirsi nelle occasioni mondane: e se i capelli con cui è fatta, si chiede, fossero di persone che avevano la peste? Le notizie sull’epidemia sono però quasi nascoste nel resoconto dei suoi impegni di lavoro, delle sue cene, dei suoi incontri mondani. Il 7 giugno nota con una qualche preoccupazione di avere visto sul portone di tre case una grande croce rossa con su scritto “Dio, abbi pietà di noi!”. Il 29 giugno annota che il re e la corte stanno facendo i preparativi per andarsene da Londra e rifugiarsi lontano dal cuore del contagio. Il 31 luglio registra il fatto che gli affari vanno bene, anche se la situazione è piuttosto problematica, dato che nell’ultima settimana ci sono stati 1800 morti. Oculato amministratore, sistema una serie di pratiche in corso, ma senza precipitazione; per prudenza fa testamento, ma continua a trattare con ironia gli impegni mondani della moglie; e per coerenza con il suo essere dedito al “piacere personale” non si sottrae all’apprezzamento delle donne e del buon cibo.

Annota con distacco la malattia o la morte di conoscenti e parenti (tra cui il suocero), ma non si lascia turbare più di tanto dal rischio di contrarre anche lui la peste. Né si commuove per la scomparsa delle molte persone che da un giorno all’altro non vede più, pur riflettendo sul fatto che spesso gli accade di dover notare che il tale, o il tal altro, sono ancora in giro, che la peste non li ancora portati via. Pepys era un uomo concreto. Il commento finale, quando la peste finì, fu di soddisfazione: ma più ancora che per la fine dell’epidemia, per il fatto che grazie agli affari conclusi nel periodo aveva triplicato il suo conto in banca. Come, ci si augura presto, potrà dire la Pfizer.

Di tutt’altro tono è il libro di quel formidabile giornalista di Daniel Defoe, che tre anni dopo aver pubblicato Robinson Crusoe diede alle stampe un libro intitolato Diario dell’anno della peste. Defoe fingeva di essere l’editor (come Manzoni per i Promessi sposi) del diario di un certo H. F., londinese, di mestiere sellaio, che era sopravvissuto alla peste del 1665. Il lunghissimo sottotitolo spiega che si tratta di un diario “contenente osservazioni o testimonianze sugli avvenimenti più notevoli, pubblici e privati, che accaddero a Londra durante l’ultima grande apparizione della peste nel 1665” (la parola dell’originale inglese, qui resa con “apparizione”, suggerisce l’idea di una manifestazione di carattere sovrannaturale, come potrebbe essere una punizione divina). Nell’arco di quei pochi mesi ufficialmente ci furono 70.000 morti, ma H. F. sostiene che furono 100.000. Sarebbe come se a Torino morissero per Covid-19 più di 200.000 persone.

Il libro di Defoe è, in fondo, un romanzo storico: ci sono pagine e pagine che riportano i dati dei bollettini parrocchiali che registravano i decessi, ci sono i decreti emanati dalle autorità cittadine (non da quelle “statali”: il re e la corte, di cui Pepys aveva registrato i preparativi di fuga, si erano rifugiati a Oxford), ci sono notizie tratte dai diari di Pepys e di un altro illustre letterato, John Evelyn, c’è insomma il dato storico recuperato dal giornalista Defoe. E poi c’è l’invenzione narrativa dovuta al romanziere Defoe, che a partire da quelle testimonianze creava l’effetto di un “vero” resoconto, di una cronaca “veritiera” di quella terribile pestilenza.

Le somiglianze con il presente sono, diciamo così, istruttive. Troviamo, innanzitutto, l’elogio dei medici, che “concorsero al salvataggio della vita di molti” londinesi, rischiando “a tal punto la vita da perderla al servizio dell’umanità”. Alcuni medici, pochi, (come da noi successe nella primavera scorsa) “abbandonarono i pazienti all’epidemia” fuggendo fuori Londra; ma quando tornarono in città vennero giustamente chiamati disertori.

Nel Diario troviamo, soprattutto, la descrizione delle successive fasi del contagio. All’inizio ci fu l’esodo di molti dalla City: esodo autorizzato, in quanto il Sindaco diede un certificato di buona salute ai richiedenti che sembravano esserlo. Alcuni lo sembravano soltanto; e portarono il contagio fuori città. Poi si fece strada, volontariamente, l’abitudine a non uscire di casa la sera, ma questo non poteva certo bastare. Infine, con l’esplosione dei casi di peste, le autorità della City decretarono che i malati e i parenti dei malati restassero chiusi in casa. C’era un precedente. In occasione della peste del 1603 il Parlamento aveva deliberato, ricorda Defoe, “di chiudere la gente in casa”. E così si fece nel 1665. Boris Johnson, non sapendolo, per una decina di giorni, in nome delle tradizioni inglesi, straparlò sulla libertà di circolazione e di raduno nei pub, nei ristoranti, nei cinema e nei teatri. Come si diceva prima, già ai tempi di Shakespeare, per evitare il contagio, i teatri venivano chiusi. Ma Boris non lo sapeva. Poi, forse grazie anche alla sua esperienza personale, ha pensato bene di dare ascolto ai medici e agli scienziati che, pur non essendosi laureati in Storia come lui, quei lontani fatti storici li ricordavano. E che gli dicevano come bisognava procedere per contenere prima e per sconfiggere poi il contagio.

Ma torniamo al Diario di Defoe e a quel micidiale imperversare della peste. La chiusura in casa dei malati e dei loro familiari era vista con angoscia. “All’inizio della moria” le autorità cittadine misero dei guardiani davanti alle porta delle case “infette”, ma spesso alcuni dei guardiani venivano corrotti, altri malmenati: e così i parenti degli appestati potevano uscirsene di casa e scappare fuori città. Molti di loro non sapevano di essere malati e trasmisero il morbo ovunque si rifugiarono. Poi, in poco tempo “ogni commercio, eccetto quello riguardante i mezzi di sussistenza, subì un arresto totale”; in ogni caso all’estero non volevano saperne di merci inglesi e le navi dirette a Livorno e Napoli, ad esempio, vennero mandate in Turchia.

Le pagine più angosciate non sono però quelle dedicate ai commerci, ma quelle dedicate alla condizione dei poveri; “non avevano infatti né cibo, né medicine, né medico, né farmacista che si occupasse di loro, né infermiera che li assistesse”. E tuttavia un moto caritatevole ci fu: per aiutarli furono raccolte somme ingenti grazie alle offerte dei mercanti più timorati di Dio. Il morbo, però, non trovava ostacoli. Tucidide racconta che durante la peste del 430 A. C. i medici ateniesi erano disarmati di fronte a una malattia a loro sconosciuta. Quelli londinesi ne sapevano di più – e la raccomandazione, insieme a quella di restare in casa, era di lavarsi bene le mani. Ma non molto di più.

C’è però un punto del Diario che particolarmente colpisce. Quando, superato il picco, il numero dei morti discese fortemente, “la popolazione divenne così temeraria che considerò il morbo nulla più che una comune febbre”. Molti cominciarono ad andare in giro dappertutto e il contagio di nuovo riprese con forza. Abbassare la guardia, insegnamento del tutto ignorato dai nostrani politici populisti e da illustri epidemiologi al loro servizio, fu una cosa disastrosa. Se Dio vuole (e per Defoe è proprio la Divina Provvidenza che lo vuole) finalmente la peste sparì. Ma ancor prima erano spariti i santoni e i ciarlatani vari che offrivano rimedi inesistenti e ritenevano inutili le raccomandazioni dei medici. Da noi, per lungo tempo, santoni e ciarlatani vari hanno continuato a imperversare. E alcuni di loro ancora non hanno smesso di propagandare le loro imbecilli credenze.


Quella che segue è una parte dell’intervista su “Albert Camus e La peste” che la professoressa Pierangela Adinolfi, del Dipartimento di Lingue dell’Università di Torino, ha rilasciato a UniToNews

Di cosa parla il capolavoro di Camus? E perché è tornato prepotentemente alla ribalta?

Il capolavoro di Camus, La peste, racconta il dilagare di un’epidemia di peste che si manifesta in un tempo non precisato degli anni Quaranta del secolo scorso, in una città dell’Algeria, Orano.

In effetti, a partire dal mese di marzo (del 2020) il libro non solo è tornato alla ribalta, se così si può dire, ma ha avuto una vera e propria impennata delle vendite in Italia e all’estero.

Il primo motivo di questo rinnovato interesse discende dalla trama e dalla struttura del testo, costruito per creare la rappresentazione di uno stato di allarme che si dispiega in tutte le sue fasi, a partire dalla sottovalutazione e dall’incredulità iniziali fino ad arrivare, attraverso la serrata analisi psicologica dei personaggi che ripropongono la vasta gamma di emozioni, sentimenti e passioni dell’essere umano, alla constatazione di una possibile via d’uscita. Tutte le dinamiche interpersonali, affettive, politiche, economiche, che si verificano nella situazione di epidemia e quarantena sono messe in campo. Camus parla dell’esilio, che in questo caso è la separazione dagli affetti, la privazione della libertà, parla della paura della morte e dell’impotenza umana di fronte alle catastrofi naturali. Parla anche del coraggio, della consapevolezza, cui si perviene soltanto con il dubbio circa le verità acquisite, della giustizia, della risposta individuale di fronte a un male collettivo e della speranza, una speranza che può riportare ad “essere felici insieme agli altri”. Tutti gli aspetti presi in esame sono considerati dal punto di vista prettamente umano e questa è una peculiarità di Camus.

Il secondo motivo pone le sue radici nello spessore filosofico-esistenziale del testo. Il morbo della peste, come è noto, è la rappresentazione simbolica del Male. Pubblicato nel 1947, a ridosso della fine della seconda guerra mondiale, il romanzo di Camus mette in scena la peste quale metafora del nazional-socialismo appena sconfitto, ma anche in quanto emblema di ogni tipo di male che in ogni epoca storica è in grado di minacciare l’umanità. Il problema del Male, che assume anche tratti metafisici, è il grande problema di fondo che caratterizza lo scenario de La peste. In risposta alla consapevolezza dell’esistenza del male, Camus crea il docteur Rieux, il personaggio adatto a veicolare la forza del suo pensiero. Rieux è colui che sa opporsi, attraverso la razionalità della scienza e la tenacia della scelta individuale, all’assurdità del male. Per mezzo del confronto di Rieux con gli altri personaggi, Camus, accanto al problema del Male, affronta il problema della morte, della sofferenza inutile degli innocenti, della religione cristiana e di Dio. Camus sottolinea con forza la necessità del dialogo permanente tra atei e cristiani. Il cristiano chiama “Dio” ciò che non capisce, mentre l’ateo lo definisce “Assurdo”. Entrambi, però, condividono la stessa tragica condizione di vita terrena, entrambi sono sottoposti al Male. È, pertanto, nella prospettiva della lotta contro il Male, della Rivolta, che tutti i “fratelli” umani si devono stringere sotto il segno della Solidarietà. La Caritas cristiana si tramuta in solidarietà umana e Rieux, grazie alle parole dell’amico Tarrou, assume i caratteri del “santo laico”, del “tipo” d’uomo capace di combattere, all’interno della rivolta collettiva, il male e l’assurdo.

Il terzo motivo concerne più da vicino la percezione del lettore che oggi rilegge La peste. Della facilità con la quale si riesce oggi a immedesimarsi negli avvenimenti descritti ne La peste, si è detto prima; con la differenza che la situazione letteraria è molto più circoscritta, poiché interessa una sola città, mentre la nostra condizione ricopre ormai una dimensione estesa a livello mondiale. Ciò che secondo me risulta maggiormente interessante trattenere dalla lettura de La peste è proprio l’impianto filosofico – esistenziale, traboccante di significato, sotteso al romanzo. Ciò che Camus ha trasmesso con la sua narrazione.

Anche prima di oggi, La peste custodiva il suo alto contenuto di senso, quindi non è l’attualità che dà valore al libro, bensì il contrario. Si dovrebbe, pertanto, ribaltare la prospettiva: non sono i libri a essere attuali, ma sono gli eventi storici, fausti e infausti, che si ripetono ed è dai libri che possiamo ricavare una lezione di senso, quel senso che secondo La peste è collocato nella solidarietà e nella lotta umana contro l’assurdo.

Cosa ci insegna La peste di Camus alla luce di quello che stiamo vivendo?

La peste di Camus ci insegna sicuramente a non essere complici del male, a recuperare, quindi, dei valori nei momenti di maggiore criticità, a non considerarsi per sempre al sicuro, perché, come scrive Camus nell’epilogo del suo libro, il morbo della peste può celarsi per un tempo a noi sconosciuto per poi risvegliare i suoi ratti e mandarli a morire in una città felice. Può quindi tornare e diffondersi ovunque. Ciò vuol dire che nessuno si può salvare senza la solidarietà dell’altro (pensiamo anche alla situazione europea, ma non solo, che richiederebbe la solidarietà fra gli Stati membri). È ancora possibile essere felici, ma ciò ha senso soltanto se si può essere “felici insieme agli altri “.

Tutto il male del mondo

Marco Chiauzza
Storico

I primi secoli del cristianesimo furono caratterizzati dal fiorire di innumerevoli varianti della nuova fede, e dai dibattiti – spesso feroci – che videro contrapporsi i loro più significativi rappresentanti. Soprattutto nel corso del IV secolo si svilupparono le più importanti fra quelle che più tardi sarebbero state considerate eresie, perlopiù incentrate sulla natura del Cristo e sulla relazione intercorrente fra le persone della trinità divina: dall’arianesimo, al monofisismo, al nestorianesimo, e alle loro sottili e difficilmente distinguibili ulteriori sfumature. Ma prima ancora di quelle discussioni – bizantine per definizione, visto che ebbero luogo nei secoli del tardo impero e in particolare nella sua parte orientale governata da Costantinopoli, l’antica Bisanzio – fra II e III secolo il medesimo mondo romano – ma anche alcuni territori oltre i suoi confini, come quelli dell’impero persiano sasanide – furono percorsi da altri fermenti, noti perlopiù con il nome collettivo di gnosticismo, essi pure spesso ma semplicisticamente ricondotti alla categoria delle eresie cristiane. In effetti, quest’ultima etichetta è almeno parzialmente impropria, perché presuppone una divaricazione di posizioni differenti a partire da un unico insegnamento – quello, reale o presunto, di Gesù di Nazareth -; mentre lo gnosticismo non è tanto un sottoinsieme dell’insieme più ampio costituito dal cristianesimo, ma si configura piuttosto come un altro insieme intersecantesi con quest’ultimo: insomma, non solo non tutto il cristianesimo è gnostico, ma neppure lo gnosticismo si esaurisce integralmente all’interno del cristianesimo. D’altra parte, esso si sviluppa in un’epoca in cui nel mondo religioso romano e mediterraneo si affermano forti tendenze sincretistiche, che portano le diverse credenze religiose a ibridarsi, in molti casi fino a confondersi: sono questi, infatti, gli anni in cui perfino presso alcuni esponenti della dinastia imperiale dei Severi – in particolare le donne della famiglia – vengono venerati insieme le divinità della tradizione greco-romana e quelle importate dall’Oriente, in un panteon variegato in cui a volte non sfigurano neppure personaggi come Mosè e Gesù.

Ma che cos’è, allora, lo gnosticismo? Il nome di questo variegato complesso di correnti di pensiero evoca intanto uno dei concetti fondamentali attorno ai quali esso si struttura, quello di gnosi. In greco quest’ultima parola significa semplicemente “conoscenza”, e ha la medesima radice del latino cognoscere, da cui deriva, appunto, l’italiano “conoscere”. Il primo nucleo concettuale comune a tutte le correnti gnostiche è dunque quello secondo il quale la salvezza oltremondana dell’individuo dipende dalla conoscenza di una serie di dottrine: si salva chi sa. Ma il termine “gnosi” non deve trarre in inganno. Lo gnosticismo non si presenta infatti come una lettura razionalista della religione cristiana – o della religione in generale – fondata sulla convinzione che il fedele debba raggiungere o quantomeno chiarire i contenuti delle proprie credenze grazie a uno sforzo di comprensione intellettuale. La conoscenza che salva lo gnostico è infatti una conoscenza rivelata da quella stessa dimensione superiore e divina cui egli tenta disperatamente di ricongiungersi. Per questo motivo lo gnosticismo è e resta una modalità dell’esperienza religiosa e non può in alcun caso essere considerato una corrente filosofica. Eppure, è innegabile in esso una tendenza – a volte ossessiva – all’elaborazione concettuale delle dottrine, che condusse ogni setta gnostica a elaborare una propria complessa e spesso lussureggiante mitologia, che non trascura di utilizzare ai propri fini parte del patrimonio concettuale elaborato dalla tradizione filosofica precedente e contemporanea.

Ma, una volta precisata l’origine della conoscenza gnostica, quale ne è il contenuto? Si tratta di una domanda cui è impossibile fornire una risposta univoca, data la pluralità e frammentarietà delle diverse sette gnostiche e delle loro credenze, peraltro perlopiù a noi note – come avviene per quasi tutte le “eresie” – attraverso le testimonianze degli avversari che intendevano confutarle, in molti casi, dunque, inficiate da una non nascosta intenzione polemica. Eppure, anche in questo caso, qualche tratto comune può essere individuato. Diciamo che la gnosi è in primo luogo una forma di sentimento religioso: lo gnostico è colui che sente di essere imprigionato in questo mondo ma di non appartenervi, secondo una prospettiva che molti secoli dopo sarebbe stata condivisa anche da certo romanticismo e da certo esistenzialismo. Un’immagine può illustrare efficacemente tale sentimento. Per la maggior parte delle filosofie e cosmologie antiche le sfere celesti – concepite perlopiù non come semplici orbite, ma come sfere reali e fisiche che circondavano la Terra, perlopiù pensata al centro dell’universo – erano l’espressione più alta dell’armonia e dell’ordine divino che reggevano il mondo: non si dimentichi che il termine greco kósmos significa originariamente proprio “ordine”. Al contrario, per molti gruppi gnostici, esse rappresentano invece le pareti concentriche di un carcere che impedisce all’uomo di tornare alle proprie origini celesti. Perché in effetti l’uomo – o meglio l’essere umano, dal momento che alcune sette ne affermano esplicitamente il carattere androgino prima della caduta – partecipa nella sua essenza a una condizione di divina perfezione originaria da cui è precipitato.

Ma quale è stata la causa di tale catastrofe? Come sappiamo, il tema della caduta è ben presente nella tradizione cristiana. Tuttavia, nel libro della Genesi, almeno nell’interpretazione che più ci è familiare, il mondo nel quale viviamo ha una connotazione essenzialmente positiva. Esso è il frutto della sapienza di Dio, che della sua creazione si è compiaciuto: “E Dio vide che ciò era buono”. Di questo paradiso terrestre l’uomo è stato posto al vertice, per governarlo e custodirlo. La caduta sopraggiunge dopo, quando la coppia originaria si ribella contro il proprio creatore, trascinando nell’abisso l’intero creato. Solo da quel momento l’uomo – e tutto il mondo con esso –, perduta l’innocenza originaria, rimane in attesa di un salvatore che possa redimerlo: la frattura provocata dalla tragedia del peccato originale – compiuto da un singolo, ma che ha trascinato l’intera umanità e il cosmo stesso nell’abisso – potrà allora essere sanata nel sacrificio di un solo uomo, Gesù il Cristo, che è però anche Dio incarnato. Per il cristianesimo – almeno nelle sue varianti che sarebbero poi state riconosciute come ortodosse – la caduta è dunque successiva alla creazione, che è originariamente buona e in ogni caso destinata a essere redenta. Ben diversa è invece la visione gnostica, per la quale la creazione è l’effetto della caduta, e quasi si identifica con essa. Anche se – come già detto – la variegata molteplicità delle sette gnostiche ha partorito una altrettanto variegata congerie di miti, nella maggior parte di essi la caduta è connessa a un atto di ribellione originaria, che non è tuttavia compiuto dall’uomo, ma si verifica all’interno del pleroma (in greco “pienezza”). Nella lussureggiante mitologia gnostica, il pleroma è l’insieme armonico e perfetto del dio supremo, radicalmente trascendente, e di una serie di entità divine, o eoni, da esso emanate direttamente, ovvero indirettamente per mezzo di altri eoni (termine che letteralmente significa “epoca” o “evo”, ma che nel contesto della riflessione gnostica indica piuttosto degli stati atemporali di emanazione dal Primo Dio).

Ma si tratta di un’armonia destinata a infrangersi. A un certo momento nel pleroma succede qualcosa, si tratti di un atto di ribellione da parte di uno degli eoni, oppure di una forma di emanazione impura: in ogni caso, da questa frattura nel pleroma si genera un eone corrotto e malvagio, il Demiurgo. Quest’ultimo termine significa letteralmente “colui che lavora per il popolo”, cioè “artigiano”; e all’epoca delle prime sette gnostiche aveva già una plurisecolare tradizione filosofica alle spalle, risalente in ultima istanza a Platone, che in uno dei suoi ultimi dialoghi, il Timeo, aveva ipotizzato l’esistenza di un Demiurgo divino, una sorta di grande artigiano cosmico – il grande architetto o grande orologiaio, come si sarebbero espressi molti filosofi fra Seicento e Settecento, e con loro i Liberi Muratori – che avrebbe plasmato l’universo a partire da una sorta di materia originaria, la chôra (letteralmente “spazio”). Tuttavia, nella concezione gnostica il Demiurgo subisce un radicale capovolgimento assiologico: se quello platonico era un dio buono e sapiente, che nella sua opera di costruzione del cosmo aveva guardato al modello delle idee, paradigmi di razionalità e perfezione; il Demiurgo gnostico è invece un’entità maligna, che produce il mondo materiale quale espressione e quasi effetto collaterale della rottura del pleroma. La creazione gnostica non è dunque la manifestazione, per quanto inevitabilmente imperfetta, di un dio buono e sapiente, bensì il frutto malato di un’entità corrotta. E tale creazione trascina con sé anche l’Uomo primordiale, che dalla sua originaria esistenza pleromatica precipita anch’esso nella cupa e dolorosa prigione costituita dal mondo demiurgico: l’immagine gnostica dell’uomo è quella di una scintilla di luce divina caduta nel fango della materialità, concepita come inesorabilmente malvagia e irredimibile, diversamente dal cristianesimo ortodosso che – non si dimentichi – aveva pur sempre considerato il corpo degno di accogliere la divinità nell’incarnazione del Verbo, e promesso ai fedeli la resurrezione della carne.

Per il fedele gnostico la speranza non è costituita dalla resurrezione della carne – inconcepibile per chi rifiuta il mondo fisico come radicalmente malvagio – bensì dalla possibilità di liberarsi da quel mondo e recuperare la propria perfetta condizione originaria. Ciò è possibile solo grazie alla conoscenza della verità – la gnosi, appunto – trasmessa da una rivelazione divina, mediata da una serie di messaggeri o angeli (ángelos in greco significa proprio “messaggero”) inviati dal dio supremo, il Primo Eone, nel corso del tempo: per gli gnostici cristiani uno di essi – e il più importante – è Gesù. Ma come facevano questi stessi gnostici cristiani a conciliare le proprie concezioni con la narrazione della Genesi, che presenta la creazione come opera di Dio? In effetti, neppure ai cristiani ortodossi è mai sfuggita la differenza fra il dio dell’Antico e quello del Nuovo Testamento: il primo si presenta come geloso, vendicativo, a volte francamente crudele e spesso incomprensibile nel suo agire; il secondo è invece misericordioso, pronto a perdonare l’uomo e a condurlo alla salvezza malgrado tutte le sue manchevolezze. La soluzione tradizionale consiste nell’ammettere un differente atteggiamento dell’unica divinità così come è presentata nelle due parti della scrittura: dopo il peccato originale e fino all’incarnazione abbiamo un Dio giustamente severo verso un’umanità – a cominciare dal popolo ebraico – che ha gravemente mancato nei suoi confronti; dopo la venuta del Messia, il medesimo Dio si manifesta come colui che ha liberamente scelto di sacrificare il proprio unico Figlio per la salvezza di chi crederà in lui. Anche in questo caso, la soluzione degli gnostici – dei cristiani gnostici – è radicalmente diversa. Per loro l’Antico e il Nuovo Testamento non presentano comportamenti differenti dello stesso Dio, bensì due dèi distinti e contrapposti. Il primo è il Demiurgo malvagio, creatore del mondo fisico e dunque responsabile di tutto il male che quel mondo permea; il secondo è il Dio supremo, il Primo Eone che ha inviato i propri angeli per fornire agli uomini con la gnosi una via di scampo dal carcere in cui sono imprigionati. Per alcune sette gnostiche, in particolare gli Ofiti, ciò comportava un’interpretazione originale della figura del serpente che suggerisce a Adamo ed Eva di mangiare il frutto proibito. In effetti, tale figura è presentata nel libro della Genesi come l’avversario per antonomasia di Dio; ma se quel dio è ormai identificato con il malvagio Demiurgo responsabile del male del mondo e della sofferenza umana, allora il suo nemico dovrà essere reinterpretato in chiave positiva. Per gli Ofiti, il cui nome significa proprio “seguaci del serpente”, quest’ultimo altri non è che uno degli angeli mandati dal Dio buono per salvare gli uomini dalla trappola di quello malvagio, proponendo a essi di nutrirsi del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, cioè offrendo loro la gnosi salvifica.

Abbiamo dunque delineato alcuni dei tratti comuni alla sensibilità gnostica; ma – come per tutti i fenomeni storici, compresi quelli attinenti alla storia delle cultura – dobbiamo ancora porci un’ulteriore domanda: quali sono le origini di tale visione del mondo, quali le fonti e influenze che in esse hanno finito per convergere? Si tratta – ancora una volta – di una questione estremamente complessa: le premesse e le cause dell’emergere dello gnosticismo – già di suo molteplice e frastagliato – devono essere ricercate in molte direzioni; tentiamo tuttavia di farlo – semplificando un po’ – indagando in tre ambiti distinti. In primo luogo, una sensibilità per alcuni versi affine a quella gnostica è presente nella civiltà ellenica – e di seguito più in generale in quella occidentale – fin dalle sue origini: potremmo indicarla come il “pessimismo greco”, già individuato all’inizio dell’Ottocento da Arthur Schopenhauer e poi – sia pure con una significativa revisione – da Friedrich Nietzsche alla fine dello stesso secolo. Si tratta di una corrente minoritaria, o comunque a volte poco appariscente e carsica, a confronto con quello che potremmo invece per contrasto definire come l’”ottimismo greco”. In effetti, l’immagine dominante dell’antica civiltà ellenica è quella di un mondo caratterizzato da una certa solarità, in cui gli dèi erano la personificazione dei fenomeni naturali e delle caratteristiche della personalità umana; in cui la vita – in tutti i suoi aspetti, a cominciare da quelli più propriamente legati alla corporeità – era concepita essenzialmente in termini gioiosi e positivi; in cui si coltivavano l’armonia e la bellezza: un mondo, insomma, dominato dallo spirito Apollineo, per utilizzare un’espressione resa famosa da Nietzsche ne La nascita della tragedia. Esiste tuttavia nella civiltà greca anche una tendenza opposta, quella per cui la vita – quantomeno quella fisica e corporea – è invece essenzialmente male. È questo, appunto, il pessimismo greco, ben espresso da un motto che attraversa tutta quella civiltà, secondo cui la cosa migliore per l’uomo sarebbe non essere mai nato, ma, una volta nato, la seconda cosa da desiderare è di morire al più presto. Lo stesso pessimismo che già all’inizio del VI secolo a.C. fa dire a Saffo, in preda agli spasmi dell’amore e della gelosia, non già – come ancora si legge in qualche cattiva traduzione – “vorrei morire”, bensì “vorrei essere morta”, cioè, di fatto, vorrei non essere mai esistita.

Si tratta di un sentire che non riguarda solo la vita umana, ma coinvolge l’intero cosmo. Così suona infatti il più antico frammento testuale pervenutoci dalla filosofia greca, che costituiva probabilmente l’incipit del libro Sulla natura di Anassimandro, vissuto nella generazione immediatamente successiva a quella di Saffo: “Inizio e elemento primordiale di tutte le cose è l’illimitato; e donde viene agli esseri la nascita, là avviene anche la loro dissoluzione secondo necessità; poiché si pagano la pena e l’espiazione dell’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo”. Quasi che per ogni ente il venire all’esistenza altro non fosse che la rottura di una perfetta unità originaria, colpa che si paga poi nel corso dell’esistenza stessa, con tutta la sofferenza e da ultimo la dissoluzione finale che la caratterizza, in un mondo che è in realtà un inferno, in cui ognuno infligge dolore e morte a tutti gli altri. Come si è detto, è stato per primo Schopenhauer a cogliere l’esistenza di questo filone pessimista della civiltà ellenica, e la sua prosecuzione in tutta la successiva cultura occidentale: per esempio, in pieno XVII secolo, più di due millenni dopo Anassimandro, il drammaturgo spagnolo Calderón de la Barca sembra ancora echeggiare il primordiale frammento di quell’antico pensatore, affermando che “Il peggior delitto dell’uomo è quello di essere nato”. E sempre a Schopenhauer – che pure fu fra i primi studiosi e ammiratore delle filosofie e delle religioni dell’India – va ascritto il merito di aver colto il carattere sostanzialmente originario e non derivato dall’Oriente di quel pessimismo greco e occidentale, anche se non sarebbero mancati successivi apporti dal mondo indiano e, soprattutto, iranico.

Uno dei frutti più significativi del pessimismo greco fu l’orfismo, una corrente religiosa sviluppatasi soprattutto nelle colonie elleniche dell’Italia meridionale a partire dal VI secolo a.C. Si tratta di uno dei culti misterici e iniziatici – il più famoso dei quali erano i misteri di Eleusi – che nel mondo greco affiancavano la religiosità olimpica. Non è questo il luogo per entrare nei dettagli dei culti orfici e delle credenze che vi venivano proclamate. Basti qui ricordare che gli orfici credevano nella metempsicosi, cioè nella trasmigrazione delle anime di corpo in corpo in un ciclo di morti e rinascite. È però importante sottolineare che, nell’orfismo come nelle analoghe credenze presenti nella tradizione religiosa dell’India, la metempsicosi – o reincarnazione, come più comunemente e impropriamente si dice – non deve essere intesa come una promessa, come per esempio quella della sopravvivenza dopo la morte propria del cristianesimo, bensì come una minaccia: quella di non riuscire a sfuggire alla ruota delle rinascite – e al suo inevitabile corredo di sofferenza – neppure con la morte. In effetti, secondo la testimonianza di Platone, per gli orfici il corpo era la prigione o – peggio – la tomba dell’anima (in quest’ultimo caso giocando sulla somiglianza fonetica fra sôma = “corpo” e sêma = “segno” e dunque per traslato “tomba” in quanto segno che indica il luogo di una sepoltura). Sempre Platone ci riporta un’altra immagine, ancora più drammaticamente esplicita: come i pirati etruschi, in una terribile forma di tortura, legavano i loro prigionieri a un cadavere in putrefazione; così secondo l’orfismo l’anima è legata al corpo, esso stesso destinato alla corruzione. Scopo dell’uomo sarà dunque quello di liberarsi dal ciclo nelle rinascite, per tornare a una postulata esistenza incorporea originaria e perfetta, nella convinzione che quella sia la vera vita, e non già quella incarnata, che – come suggeriscono le immagini sopra riportate – è in realtà morte: più propriamente, si tratta di liberare l’anima, cioè la parte spirituale dell’uomo, dalla sua prigione e tomba corporea. In realtà, per indicare la componente spirituale della natura umana, sembra che gli orfici utilizzassero il termine daímon, cioè demone, a indicare – come le entità semidivine che gli antichi greci indicavano con tale appellativo – una sorta di scintilla della divinità caduta e imprigionata nella corporeità, che da tale condizione aspira a essere liberata. E per gli orfici la via maestra di questa liberazione è la conoscenza – o meglio la visione – delle verità segrete cui solo agli adepti era concesso partecipare nel corso dei culti misterici: già con l’orfismo, dunque, siamo di fronte all’idea di una conoscenza rivelata, cioè di una gnosi liberatoria.

Pochi decenni dopo la nascita dell’orfismo, le sue convinzioni escatologiche, cioè relative al destino ultramondano dell’essere umano, saranno condivise dalla setta filosofico-religiosa dei pitagorici, anche se una componente della loro gnosi salvifica sarà costituita dalle conoscenze matematiche per cui sarebbero rimasti famosi, viste probabilmente come una forma di purificazione dell’anima, in quanto la matematica comporta forme di ragionamento via via più astratte e slegate dall’esistenza fisica e dall’apparenza empirica degli oggetti. E dai pitagorici la medesima concezione escatologica di fondo arriverà fino a Platone, anche se per lui la conoscenza liberatoria sarà almeno parzialmente estranea alla dimensione propriamente religiosa: non si tratterà più tanto di una gnosi rivelata, quanto della conoscenza derivata da quella particolarissima forma di ascesi (in greco “esercizio”) che è la ricerca filosofica.

La concezione gnostica di un mondo fisico inteso come una prigione dell’anima, che da esso aspira a liberarsi, è dunque già presente nei suoi tratti essenziali in tutta la tradizione filosofico-religiosa greca precedente, che ha nel pensiero di Platone uno dei suoi vertici più significativi. E proprio nel platonismo e nei suoi complessi sviluppi interni dobbiamo ricercare la seconda e più specifica fonte della visione del mondo gnostica. Anche in questo caso, non è certamente possibile delineare, fosse anche solo sommariamente, i complessi contenuti del pensiero di Platone, ma qui interessano solo alcuni aspetti specifici che si cercherà di individuare. La riflessione dell’antico filosofo gravita tutta intorno alla teoria delle idee, secondo la quale la realtà empirica è concepita come mera imitazione imperfetta e transeunte di modelli perfetti ed eterni, appunto le idee. Tale concezione, apparentemente lineare, nasconde invece in sé una sostanziale ambiguità, ovvero – se si preferisce – si regge in equilibrio su un sottile crinale, sempre a rischio di sbilanciarsi verso l’uno o dall’altro versante. In particolare, si pone una domanda, che non trova facilmente risposta: qual è nel pensiero di Platone il valore del mondo fisico, e dunque anche del nostro corpo che a quel mondo appartiene? Nelle sue opere pervenuteci – che, caso unico per i pensatori antichi, rappresenta forse la totalità o quasi di quelle da lui composte – non troviamo alcuna indicazione univoca in merito, anche perché – come noto – sono scritte nella forma del dialogo, in cui il pensiero dell’autore risulta mediato e in parte deformato attraverso le caratteristiche proprie degli interlocutori che egli immagina partecipare alla discussione.

Per esempio, tutt’altro che chiara appare la concezione platonica del rapporto fra anima e corpo, che si configura come un aspetto particolare di quello fra le idee, di cui l’anima è parente stretta, e il mondo empirico, di cui il corpo fa parte. In effetti, a volte, come già si è accennato, il filosofo sembra accogliere la concezione di tradizione orfica, secondo la quale il corpo è prigione e tomba dell’anima; in altri casi, invece, egli lo considera come uno strumento dell’anima stessa, di cui essa si serve per agire sulla realtà esterna. Si tratta di concezioni assai differenti fra loro, e per alcuni versi incompatibili. Nel primo caso, infatti, la dimensione fisica dell’essere umano è puramente e semplicemente un male, da cui l’uomo deve cercare di liberarsi; nell’altro, invece, essa è un aspetto della natura umana, certamente inferiore alla sua componente spirituale, ma non per questo intrinsecamente negativa. In questa seconda prospettiva, Platone paragone la relazione fra anima e corpo a quella che intercorre fra il falegname e i suoi strumenti, che certo sono subordinati all’artigiano stesso, ma senza i quali egli non potrebbe svolgere il proprio lavoro, e proprio per questo non li disprezza affatto e anzi se ne prende cura: d’altra parte, nel suo stesso comportamento personale, Socrate – che come interlocutore principale nella maggior parte dei dialoghi platonici rappresenta perlopiù le posizioni dell’autore, che ne era stato discepolo prediletto – mostrò sempre di avere il massimo rispetto per il proprio corpo, adottando tutti i comportamenti atti a garantirne la salute e l’efficienza.

In generale, la sottile ambiguità del pensiero di Platone si estende alla più ampia questione del rapporto fra mondo delle idee e mondo empirico, la dimensione fisica nella quale ogni essere umano vive e opera. Ponendo la questione in modo semplificato, la domanda che si pone è sostanzialmente la seguente: quel mondo è buono o cattivo? Anche in questo caso, nei dialoghi platonici non è possibile trovare una risposta inequivoca, o, meglio, entrambe le risposte possono essere trovate, a seconda di dove di volta in volta l’autore fa cadere l’accento. L’ambiguità segnalata, può essere espressa nei termini seguenti. Come si è detto, il mondo empirico e tutte le realtà che a esso appartengono sono concepiti da Platone come imitazione dei perfetti modelli ideali. Ora, se si sottolinea il fatto che essi partecipano in quanto imitazioni della perfezione delle idee, ne risulta necessariamente il loro carattere sostanzialmente buono e positivo; ma se, al contrario, si fa pesare l’aspetto per cui sono solamente imitazioni, ne emerge inevitabilmente il loro carattere limitato e imperfetto, se non francamente irrazionale, negativo e in ultima istanza malvagio.

La potenza complessiva della grande intuizione filosofica di Platone e lo stesso eccezionale valore letterario dei suoi dialoghi gli consentirono di rimanere in equilibrio sul crinale della sostanziale ambiguità della sua teoria principale; ma tale equilibrio era destinato inevitabilmente a perdersi nel platonismo dei secoli successivi, soprattutto quando esso dovette confrontarsi con nuove condizioni, ben diverse da quelle in cui era vissuto il maestro, in cui ormai il mondo antico stava iniziando a disgregarsi, sotto i colpi di una crisi al tempo stesso politica, economica, epidemiologica e culturale, entrando così in quella che un grande storico della civiltà ha efficacemente definito come un’epoca di angoscia. In effetti, all’inizio del II secolo d.C., l’impero romano aveva raggiunto la sua massima espansione con le ultime conquiste compiute da Traiano. Da quel momento, i confini non potevano più essere ulteriormente ampliati, non fosse altro che per l’impossibilità tecnica di governare con gli strumenti dell’epoca territori ancora più estesi; e proprio da quel momento, raggiunto il culmine, l’impero iniziò la sua irreversibile crisi. Il II secolo sembrò segnare per qualche tempo il raggiungimento di una condizione finalmente di pace, prosperità e stabilità, ma già nei suoi ultimi decenni i segni della crisi erano evidenti: la fine delle conquiste fece venir meno l’afflusso di manodopera schiavile; le terre coltivabili, prive della forza lavoro necessaria, cominciarono a spopolarsi; nuovi popoli premevano sui confini ormai troppo estesi dell’impero; e con esse arrivarono anche le prime devastanti epidemie. Ma fu nel III secolo che la crisi scoppiò in tutta la sua violenza: nei cinquant’anni della cosiddetta anarchia militare, si susseguirono con un ritmo impressionante imperatori effimeri creati e abbattuti dagli eserciti, e usurpatori che, ribellandosi al governo centrale, assumevano il controllo di alcune regioni staccandole dal corpo dell’impero; mentre popoli provenienti dal mondo germanico, da quello iranico, e dalle steppe dell’Asia centrale – quelli che i romani chiamavano semplicemente “barbari”, cioè genti che parlavano lingue strane e incomprensibili – sfondarono i confini e devastarono gran parte dei territori dell’impero. Di fronte a questo mondo in disfacimento, gli esseri umani – e dunque anche i filosofi e gli intellettuali di ogni genere – potevano reagire in due mondi opposti e solo apparentemente contraddittori: alcuni furono portati a elaborare concezioni metafisiche che rendessero conto della tragedia, raffigurandosi il mondo come essenzialmente malvagio e corrotto; altri, quasi nell’inconsapevole tentativo di esorcizzare quella stessa tragedia, vollero invece immaginarsi che quel mondo, malgrado la sua apparente malvagità, fosse comunque un mondo buono, almeno nel suo principio e nel suo fondamento profondo.

Fu quest’ultima la strada percorsa dal neoplatonismo tardoantico, a cominciare da Plotino, il principale esponente di tale corrente vissuto proprio nel III secolo. Egli si richiama probabilmente alle cosiddette dottrine non scritte di Platone, non riportate nei dialoghi ma insegnate dal maestro nell’Accademia, la scuola da lui fondata ad Atene, di cui noi oggi pochissimo sappiamo, ma su cui Plotino poteva forse avere notizie più ampie e significative; ma rilegge anche alcuni spunti effettivamente presenti dei dialoghi, in particolare un passo della Repubblica di Platone, in cui si ipotizza, al di sopra dello stesso mondo delle idee, la sussistenza di un principio ancora più elevato, “per dignità e potenza superiore all’essere”. A tale principio, che Platone identifica con il Bene e che rappresenta in un certo senso un modello di suprema perfezione per le idee, così come queste ultime sono un modello per la realtà empirica, Plotino, a sottolinearne l’assoluta trascendenza, preferisce non attribuire un nome, che ne depotenzierebbe il valore assoluto limitandolo a un unico aspetto della sua natura: tuttavia, per poterne in qualche modo nominarlo, egli utilizza il termine “Uno”, considerato il meno inadeguato fra gli appellativi utilizzabili, in quanto evoca il suo carattere di fondamento unitario da cui tutta la realtà deriva e cui in qualche modo può essere ricondotta. Dall’Uno, dunque, emana o procede – secondo la caratteristica terminologia neoplatonica – l’essere in tutti i suoi aspetti, da quelli più elevati e immateriali al mondo fisico: un essere, quindi, che per la sua stessa origine dovrebbe essere considerato buono e positivo in tutti i suoi aspetti.

Ma qual è, allora, l’atteggiamento di Plotino di fronte agli aspetti tragici della realtà che lo circonda? Che ne è del male del mondo? E che ne è di quella materia o chôra nella quale il Demiurgo secondo Platone – e anche secondo lo stesso Plotino – aveva plasmato il mondo, e che per l’antico maestro era caratterizzata da irrazionalità e disordine, che inevitabilmente finivano per proiettarsi anche sull’intera realtà fisica? Plotino non era tenero nei confronti della materialità: secondo il suo biografo Porfirio, cui dobbiamo anche la trascrizione delle sue lezioni, egli avrebbe affermato di vergognarsi di avere un corpo. Eppure la sua soluzione del problema del male è potente e radicale: il male si identifica con la materia, ma – ecco il colpo di reni concettuale che consente di trasformare un potenziale pessimismo nel più radicale ottimismo – il male e la materia puramente e semplicemente non esistono. Per Plotino, insomma, tutto ciò che esiste, derivando dall’Uno o Bene, in quanto esiste è buono: il male e la materialità altro non sono che la manifestazione della relativa mancanza di bene e di essere che caratterizza vieppiù gli enti mano a mano che essi, nel processo di emanazione, progressivamente si allontanano dall’Uno. La soluzione metafisica data da Plotino e dal neoplatonismo al problema del male – che pure in quegli anni terribili doveva essergli ben presente – consiste dunque nel depotenziarne radicalmente la consistenza ontologica – cioè, potremmo dire, la quantità di essere in esso contenuto – fino a ridurlo, malgrado tutto, a pura apparenza e, in ultima istanza, al nulla.

Ben diversa è invece la soluzione adottata dallo gnosticismo. Nella riflessione gnostica non è assente l’influenza della tradizione platonica, seppur mescolata con altre fonti di cui presto parleremo, e affogata nel lussureggiare delle sue complesse mitologie, che non a caso proprio Plotino non mancò di rimproverarle. Tuttavia, del platonismo la gnosi accentua il lato pessimistico, risolvendone le ambiguità nella direzione esattamente antitetica rispetto a quella presa dal neoplatonismo. E, anche in questo caso, non mancano i possibili agganci nelle dottrine del maestro. Platone, infatti, aveva individuato nella chôra un principio di disordine e di irrazionalità coeterno tanto al Demiurgo che in essa aveva plasmato il mondo, quanto alle idee alle quali nella sua opera si era ispirato, e in ultima istanza allo stesso Bene; e in qualche dialogo – nonché probabilmente nelle dottrine non scritte – il filosofo aveva fatto balenare l’ipotesi che, allo stesso livello dell’Uno e del Bene, dovesse ipotizzarsi la sussistenza di un secondo principio, quello della Diade indefinita, cioè della molteplicità: si trattava di postulati necessari per spiegare il disordine e, in definitiva, il male del mondo. Utilizzando tali spunti – mescolati ad altri di diversa provenienza – lo gnosticismo capovolgeva la prospettiva del neoplatonismo: mentre quest’ultimo aveva da ultimo negato l’esistenza del male; la gnosi ritiene tale esistenza drammaticamente reale, e intende spiegarla riconoscendogli una forte consistenza ontologica. Il male, anziché essere un alcunché di meramente apparente, è il fondamento metafisico del mondo fisico, frutto corrotto del Demiurgo maligno e impotente, che nella visione del mondo dell’uomo gnostico ha ormai sostituito il Demiurgo buono e intelligente che Platone aveva descritto nel Timeo.

Come si è detto, la gnosi è per molti versi espressione di una diffusa tendenza al sincretismo religioso, favorita inizialmente, a partire dalla fine del IV secolo a.C. dalla progressiva fusione della civiltà greca e di quelle dei diversi popoli che erano stati governati dall’impero persiano e che con le conquista di Alessandro Magno erano entrati a far parte di un’unica koiné (“comunanza”) culturale: tale koiné, che gli storici moderni hanno denominato “ellenismo”, aveva poi trovato una definitiva realizzazione politica con l’impero romano, che a gran parte di essa aveva esteso il proprio dominio. È in tale contesto che trova spazio l’influenza della terza fonte fondamentale cui si ispira lo sviluppo dello gnosticismo. Si tratta dell’antica religione iranica, ispirata all’insegnamento del semileggendario Zarathustra, il cui nome venne ellenizzato dai greci in Zoroastro. A partire dal VI secolo a.C., essa divenne la religione ufficiale dello Stato persiano, prima con la dinastia degli Achemenidi, poi – fra il III secolo a.C. e il III d.C. – con l’impero dei Parti, e infine fino al VII secolo con quello Sasanide, quando quest’ultimo venne travolto dall’invasione islamica che confinò l’antica fede zoroastriana in poche comunità isolate che ancora oggi sopravvivono in Iran e Iraq, nonché presso la popolazione Farsi del nordovest dell’India. Nel mondo antico, in cui prevalevano religioni politeiste, affiancate per molto tempo dall’unico monoteismo ebraico cui si aggiunse più tardi il cristianesimo, lo zoroastrismo rappresentò una notevole eccezione. In effetti, la dottrina di Zarathustra può essere considerata una forma di diteismo, in quanto era incentrata sull’esistenza di due principi superiori: un dio benigno di nome Ahura-Mazda e lo spirito maligno Ahrimane, destinati a confrontarsi e combattersi per l’eternità nel cosmo e all’interno stesso dell’esistenza umana. Nel crogiolo culturale dell’ellenismo, non c’è da stupirsi che tale concezione potesse influenzare e intrecciarsi con altre credenze religiose, accentuando in alcune di esse la tendenza a riconoscere, accanto all’esistenza di un dio buono, anche quella di un fondamento metafisico del male: metafora di tali incontro sono le figure dei Magi che secondo la tradizione sarebbero venuti a omaggiare il neonato Gesù, e che devono essere verosimilmente identificati con sacerdoti zoroastriani. E le influenze della religiosità iranica possono senz’altro essere riconosciute in alcuni aspetti centrali dello gnosticismo, in particolare nella sua concezione fortemente dualista e pessimista, che vede nel creatore del mondo un principio malvagio del tutto diverso dal dio buono in cui il fedele può riporre l’unica speranza attraverso la rivelazione della conoscenza salvifica.

D’altra parte, nell’ambito del mondo iranico, proprio nel III secolo d.C. che vide il fiorire di molti gruppi gnostici, si sviluppò la predicazione del profeta Mani, fondatore della religione che da lui avrebbe preso il nome, appunto il manicheismo. Essa si configura come una sorta di “eresia” dello zoroastrismo, che da un lato ne accentua il carattere dualista e pessimista, riconoscendo anche esplicitamente il carattere sostanzialmente malvagio del mondo fisico, del corpo e della materia che li costituiscono; e dall’altro non è scevra dagli aspetti di sincretismo – per esempio proprio con il cristianesimo – così tipici di quell’epoca: per molti versi deve essere considerato esso stesso una forma di gnosticismo, di cui condivide i nuclei concettuali fondamentali. Malgrado l’uccisione del suo fondatore, il manicheismo ebbe ben presto un grande successo, soprattutto all’interno dei confini dell’impero romano, dove sopravvisse al progressivo eclissarsi delle altre forme di gnosi, e fra IV e V secolo rappresentò un pericoloso concorrente del cristianesimo ormai diventato religione di Stato. La ragione di tale successo deve probabilmente essere ricercata nel fatto che, con il suo riconoscimento di un fondamento ontologico del male di potenza pari – o quasi – a quella del dio benigno e salvatore, sembrava dare una risposta convincente a chi – malgrado la provvisoria stabilizzazione dell’impero nel IV secolo – non poteva non vivere con angoscia l’incipiente disfacimento della civiltà tardoantica: non si dimentichi che proprio nel 410 il mondo dovette assistere alla tragedia fino ad allora inimmaginabile del sacco di Roma da parte dei Visigoti.

Il vescovo di Ippona Agostino individuò il pericolo e dedicò gran parte delle proprie energie intellettuali a combattere quell’avversario. In realtà, egli stesso in gioventù era stato manicheo, e anzi ne aveva approfittato per ottenere una potente raccomandazione da parte di ambienti manichei influenti a Milano – allora capitale dell’impero – per fare carriera e ottenere una cattedra di retorica nella metropoli, sfuggendo così alla marginalità della provincia africana di cui era originario; salvo poi, ottenuto il risultato, abbandonare rapidamente le proprie antiche convinzioni. In ogni caso, a prescindere da qualche motivazione di convenienza, l’iniziale adesione di Agostino al manicheismo non deve stupire: il teologo, infatti, ebbe sempre un senso molto forte del male del mondo e della peccaminosità umana, che peraltro lo conduceva, su un altro versante della propria polemica contro diverse eresie, a combattere le tesi pelagiane – così chiamate perché sostenute dal presbitero Pelagio – secondo cui l’uomo avrebbe potuto salvarsi grazie ai suoi soli meriti; tesi contro le quali Agostino giungeva a considerare l’intera umanità come un’unica massa damnata, incapace di compiere il bene, e che solo dalla grazia divina, elargita in base all’imperscrutabile volontà divina, poteva sperare la salvezza. In effetti, prima della propria definitiva conversione al cristianesimo, Agostino poteva trovare, nel riconoscimento manicheo di un autonomo e potente principio maligno, una teoria pienamente coerente con la propria dolorosa coscienza del male operante nel mondo e nell’uomo. Tale coscienza non lo abbandonò mai, ma poté da lui essere reinterpretata in chiave ortodossamente cristiana da un lato – come si è visto – con la sottolineatura dell’importanza della grazia come unica possibilità di salvezza di un’umanità che – almeno dopo la caduta di Adamo – deve essere considerata sostanzialmente e radicalmente malvagia; e dall’altro recuperando la tesi del neoplatonismo – da lui imparato a conoscere negli ambienti colti milanesi – secondo cui il male, propriamente parlando, non esiste, e altro non è che una mancanza di bene e essere delle realtà ontologicamente inferiori: secondo Agostino, insomma, il male non sta in ciò che esiste – che in quanto tale è, almeno relativamente, sempre bene – ma nell’atto con cui l’uomo decide di scegliere ciò che è meno buono invece di ciò che è migliore, per esempio il piacere fisico a scapito dei valori spirituali.

A partire dal V secolo il manicheismo perse decisamente terreno: se qualche effetto in tal senso poté avere la polemica di Agostino contro di esso, ben maggiore importanza ebbe certamente il deciso intervento a favore del cristianesimo delle autorità imperiali, che si impegnarono anche nella persecuzione di tutte le forme di religiosità eterodossa. D’altra parte, dell’ostilità imperiale nei confronti del manicheismo non ci si deve stupire, dal momento che quest’ultimo, considerando sostanzialmente come male il mondo fisico, rischiava di trascinare in tale giudizio lo stesso potere politico, che nel governo di quel mondo trovava la propria stessa ragion d’essere. Tuttavia, tendenze manichee non scomparvero del tutto. Tracce di esse devono verosimilmente essere riconosciute nella presenza dell’eresia pauliciana nell’Asia Minore della prima età bizantina, non a caso in territori non lontani dal mondo iranico. Non molto sappiamo di tale corrente religiosa, ma essa merita di essere ricordata perché probabilmente rappresentò storicamente il ponte fra il manicheismo e il bogomilismo, una eresia dualista e pessimista che troviamo attiva soprattutto fra X e XI secolo nei Balcani bizantini. Ed è probabile che proprio da lì, attraverso vie difficilmente ricostruibili, tendenze analoghe siano arrivate anche in Europa occidentale, dando origine all’eresia catara, probabilmente la più ampia e strutturata fra quelle che punteggiarono l’intera storia medievale. Il catarismo si affermò soprattutto in Provenza e più in generale nella Francia meridionale, nella pianura padana e nella valle del Reno. La sua diffusione sociale fu variegata, ma probabilmente trova un denominatore comune nei ceti vecchi e nuovi che le trasformazioni sociali e politiche del tardo medioevo tendevano a mettere in fermento: dagli artigiani delle città alla piccola nobiltà. Raramente i catari definirono sé stessi come tali, preferendo perlopiù chiamarsi semplicemente “buoni uomini” e “buoni donne”, che, al di là degli aspetti strettamente dottrinari delle proprie convinzioni religiose, cercavano di mettere concretamente in pratica gli aspetti caritatevoli e solidaristici dell’insegnamento cristiano. Eppure, il termine “cataro” appare come un’importante testimonianza dell’origine in ultima istanza orientale del movimento, e comunque dei suoi rapporti – peraltro storicamente testimoniati – con i bogomili del mondo balcanico-bizantino. In effetti, la parola deriva dal greco, lingua nella quale katharós significa “puro”. E alla purezza della vita cristiana aspiravano appunto i catari, che distinguevano tre distinte categorie di esseri umani: gli ilici (dal greco hýlē = “materia”), estranei alla gnosi salvifica e pienamente calati nella corruzione del mondo fisico; gli psichici (da psyché = anima), cioè i comuni fedeli catari; e infine il piccolo gruppo dei pneumatici (cioè “spirituali”, da pneuma = “spirito”), cioè coloro che hanno raggiunto la perfezione di una vita radicalmente ascetica che rifiuta del tutto ogni forma di commistione con il mondo, dal piacere fisico alla stessa riproduzione – perché mettere al mondo figli costringendone l’anima nella prigione di una realtà corrotta? – fino all’estremo della morte liberamente scelta per inedia e consunzione del corpo. Non è tuttavia da escludersi che nell’origine dell’appellativo “catari” abbiano giocato un ruolo anche le accuse mosse contro di loro dagli avversari. Questi ultimi, infatti, consideravano i “buoni uomini”, in quanto eretici, come seguaci del diavolo, cui spesso era collegato nella fantasia popolare – insieme al caprone e al serpente – anche il gatto. I catari, dunque, erano seguaci del diavolo, dunque seguaci del gatto, ovvero – per farla breve – gatti essi stessi. E in Renania “gatti” si doveva dire con un termine non molto diverso da quello dell’odierno tedesco, cioè katzen. Secondo alcuni studiosi, giocando su una certa assonanza, i catari avrebbero allora capovolto l’accusa mossa loro dagli avversari; un po’ come se intendessero dire: “Voi affermate che siamo come dei gatti seguaci del demonio (katzen)? Noi invece rivendichiamo di essere spiritualmente puri (katharoí)”. In ogni caso, il legame del catarismo con l’Europa orientale è testimoniato anche dal fatto che spesso le comunità catare erano definite come “chiese bulgare”, e ancora oggi in francese il termine bougre (possibile corruzione di “bulgaro”) significa qualcosa come ”tipaccio”, perché ovviamente gli eretici non potevano che essere cattive persone.

L’eresia catara fu combattuta dall’Inquisizione, che anzi fu inventata dalla chiesa cattolica proprio a tale scopo, a partire dall’inizio del XIII secolo: in questo essa fu potentemente fiancheggiata dalla monarchia francese, che vide nella cosiddetta crociata contro dagli albigesi (da Albi, uno dei principali centri di diffusione del catarismo) un buon pretesto per estendere il proprio dominio nel sud provenzale e occitano che allora non rientravano ancora nei suoi confini. L’impresa di estirpazione dell’eresia riuscì solo al prezzo di indicibili massacri e devastazioni, e non da ultimo nell’annientamento pressoché totale della raffinata cultura che in quei territori era fiorita nei secoli immediatamente precedenti: gli ultimi catari furono condannati al rogo all’inizio del Trecento. Eppure, lo spirito del catarismo non si estinse del tutto. Secondo alcuni studiosi, il fatto che nel Cinquecento le regioni meridionali della Francia abbiano costituito uno dei principali centri di diffusione del calvinismo testimonierebbe di una mai sopita ostilità nei confronti tanto del potere centrale della monarchia quanto della chiesa cattolica sua alleata; e le zone dei Balcani in cui è ancor oggi presente o dominante la fede islamica corrispondono largamente a quelle in cui era diffuso il bogomilismo, forse a testimonianza del fatto che, al momento dell’invasione turca, gli ultimi esponenti di quell’eresia, dopo secoli di persecuzioni subite da parte del cristianesimo ortodosso, trovarono più naturale avvicinarsi e da ultimo fondersi con i relativamente tolleranti invasori musulmani.

E oggi? Un interessante paragone è stato istituito da qualcuno fra lo gnosticismo e il cosiddetto complottismo. Questi due fenomeni, così lontani e per altri versi così diversi, hanno infatti in comune la tendenza a ridurre la complessità – e soprattutto quella degli innumerevoli aspetti negativi del mondo in cui viviamo – a un unico principio. Si tratterebbe, insomma, in entrambi i casi, del tentativo di semplificare la realtà, sfuggendo alla fatica di doverne indagare e analizzare i molteplici intrecci; ma anche di un fin troppo facile modo di sfuggire alle responsabilità, si tratti di attribuire la causa del peccato all’influenza irresistibile di un dio maligno, oppure quella di tutte le difficoltà che affliggono il mondo contemporaneo a un complotto dei poteri forti.

Eretico a chi?

Marco Chiauzza
Storico

La storia del cristianesimo è punteggiata dal sorgere e dall’estinguersi di una grande quantità di eresie, talmente numerose che è assai difficile classificarle o anche solo elencarle in modo esaustivo. Per impostare un’analisi dei movimenti ereticali è innanzitutto necessario precisare che nessuno di essi si è mai dichiarato tale. Il termine “eretico” è semmai stato utilizzato in senso spregiativo per indicare chi non apparteneva all’unica vera chiesa e non condivideva le giuste dottrine da essa proclamate. Da questo punto di vista, “eretico” è l’opposto per un verso di “cattolico” e per l’altro di “ortodosso”(si ricordi che solo a metà dell’XI secolo si ebbe la separazione fra la chiesa occidentale, oggi conosciuta come “cattolica”, e quella orientale, che da allora ha riservato a sé l’appellativo di “ortodossa”): in greco, infatti, katholikós significa “universale” – e la comunità dei fedeli non può che essere universale -, mentre il termine “ortodosso” indica il possesso della retta (orthós) dottrina (dóxa) in materia di fede. Per chi considerava sé stesso cattolico e ortodosso, eretico era allora chi aveva scelto di dare la propria adesione (aíresis, da cui “eresia”) a un gruppo distinto e separato dall’unica vera chiesa: in termini moderni, l’eresia era dunque una setta. Ma naturalmente ciascuno pensava che la vera chiesa fosse la propria, e la giusta dottrina quella in cui egli stesso credeva: insomma, ognuno era l’eretico di qualcun altro.

In effetti, ogni fedele pensava che solo la propria chiesa – cioè l’assemblea (ekklesía) dei fedeli – seguisse fedelmente l’insegnamento del fondatore, Gesù il Cristo; ma oggi siamo consapevoli che nessuno sa esattamente chi sia stato Gesù e quali siano stati in realtà i contenuti del suo insegnamento. Nel Cinquecento, alcuni riformatori pensarono di poter restaurare gli autentici contenuti della fede cristiana liberandola dalle illegittime incrostazioni che l’avevano alterata nei secoli del medioevo, e ritennero per questo di doversi fondare esclusivamente sul testo del Nuovo Testamento: sola scriptura – “solo per mezzo della Scrittura” – fu infatti il motto di Lutero. Ma si trattava di un’illusione. È infatti un errore pensare che fin dall’inizio le prime comunità cristiane si siano fondate sull’insegnamento del Vangelo. È piuttosto vero il contrario: ogni comunità venne elaborando testi sulla base della narrazione dei fatti e dei detti di Gesù così come erano riportati – perlopiù di seconda mano – da alcuni personaggi che godevano di particolare prestigio o influenza presso quello specifico gruppo. Si può dire, insomma, che non è stato il Vangelo a costituire il fondamento della fede dei primi cristiani; ma piuttosto che le singole comunità primitive hanno progressivamente dato origine a testi, alcuni dei quali sono poi confluiti nella raccolta che oggi conosciamo come Nuovo Testamento.
In effetti, solo nel IV secolo la chiesa – o meglio quella particolare chiesa cristiana che stava ormai diventando dominante grazie all’appoggio delle autorità imperiali romane – stabilì ufficialmente il canone degli scritti neotestamentari, stabilendo in sostanza quali, fra i numerosissimi scritti che la più antica tradizione cristiana aveva prodotto, dovessero essere riconosciuti come fondamento della fede. Tutti gli altri sono stati da allora considerati “apocrifi”, con un termine che oggi è perlopiù considerato sinonimo di “falso” o comunque “non autentico”, ma che in realtà significa “nascosto” o “segreto”, a suggerire che in essi si riteneva fosse depositata una tradizione in qualche misura esoterica, che riportava fatti e detti di Gesù non reperibili nella versione ormai diventata ufficiale del Vangelo. Come c’è da aspettarsi, quei testi sono andati in gran parte perduti, ma alcuni di essi si sono conservati più o meno frammentariamente, o perché citati da autori ortodossi con l’intento di confutarne i contenuti, o perché gli archeologi ne hanno recuperato copie in quelle che dovevano essere le biblioteche di antiche comunità eterodosse, cioè seguaci di una dottrina “altra” (héteros) rispetto a quella maggioritariamente ritenuta ortodossa. In realtà, è bene ricordare che, anche se alcuni dei cosiddetti vangeli apocrifi sono stati considerati falsi ed eretici, ciò non è vero per tutti: in certi casi, infatti, essi sono stati semplicemente ritenuti non canonici, cioè esclusi dalla raccolta ufficiale e dunque non utilizzabili quali fondamento della fede, ma sono stati comunque in qualche misura tollerati e hanno così contribuito all’affermarsi di alcune tradizioni all’interno del mondo cristiano.

La più famosa di esse è certamente quella del presepe, con tanto di bue e asino. L’invenzione del presepe è attribuita a Francesco di Assisi, ma essa si radica in una vicenda assai più antica e per molti versi interessante. Per la fede cristiana, la nascita di Gesù rappresenta l’evento fondamentale della storia, che segna una cesura radicale e irreversibile fra due epoche. Il Cristo, dunque, nasce al confine fra due ere. Ma in greco il termine che significa “era” e quello che indica “essere” e quindi anche “essere vivente” sono molto simili; e così in qualche momento deve essersi verificata una confusione, magari in quell’ambiente palestinese in cui il greco era pur sempre una lingua straniera e dunque non così familiare: a seguito di tale equivoco, si iniziò a pensare che Gesù non era solo nato a segnare il discrimine fra due epoche della storia della salvezza, ma anche, assai più prosaicamente, fra due animali. Ma quali potevano essere? Intervenne qui il ricordo della tradizione profetica dell’Antico Testamento, che anche altre volte avrebbe fornito materiale all’elaborazione dell’immaginario cristiano, come quando i quattro esseri contemplati in visione dal profeta Daniele divennero i simboli dei quattro vangeli. Nel nostro caso, nel libro di Isaia si legge che “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone; Israele non ha conoscenza, il mio popolo non ha intelligenza” (Isa 1: 2-3)”. Ecco dunque perché proprio quegli animali compariranno in un vangelo apocrifo – e poi nel presepe – a fianco di Gesù bambino, a rappresentare gli umili che riconoscono il loro salvatore a differenza di molti potenti e sapienti del mondo.

In ogni caso, come si è visto, la pluralità di tradizioni – e dunque di eresie – è antica quanto il cristianesimo stesso. La stessa figura di Gesù si presenta in modi assai diversi nei differenti testi che ci sono pervenuti, canonici o apocrifi che siano: in alcuni di questi ultimi, in particolare, essa compare a volte non già come quella di un maestro che insegna l’amore del prossimo, ma piuttosto come quella di un personaggio certo eccezionale, ma dal carattere assai vendicativo, pronto a uccidere con i propri poteri chiunque gli si opponga; oppure come una sorta di entità metafisica, ben lontana dalla concretezza umana con cui è descritta da altre fonti. Anche se oggi non sono più molti gli studiosi che giungono a negare la realtà storica della figura di Gesù, dobbiamo dunque riconoscere che di essa non sappiamo praticamente nulla, ed è impossibile sapere se si sia trattato di un capo rivoluzionario, di un riformatore politico, di un profeta, di un leader religioso o di altro ancora. Ancora una volta, bisogna ammettere che non si deve tanto pensare al Gesù storico e al suo insegnamento quale fondamento del cristianesimo, ma sia piuttosto ragionevole vedere nelle differenti immagini di Gesù che ci sono state tramandate il riflesso delle molteplici elaborazioni della sua figura operate nelle diverse comunità cristiane delle origini.

Tracce di tale pluralità sono d’altronde riscontrabili all’interno stesso dell’attuale canone neotestamentario, che risente delle specificità – e a volte delle reciproche ostilità – dei vari gruppi nell’ambito dei quali sono stati elaborati i diversi testi che lo compongono. Per esempio, se i vangeli di Marco e Matteo sono stati palesemente composti da ebrei per ebrei; quelli di Luca e Giovanni sono nati in ambienti anch’essi certamente giudaici ma fortemente influenzati dalla cultura greca. In particolare, l’autore del vangelo di Giovanni – che, come gli studi hanno ormai largamente riconosciuto, non è né l’apostolo né il compositore della più tarda Apocalisse – parla esplicitamente di un’esistenza eterna del Cristo prima dell’incarnazione come Logos, un’espressione greca in cui si fonde l’idea giudaica della parola creatrice di Dio e il concetto tutto ellenico della divina ragione universale, risalente alla tradizione filosofica stoica e platonica. Ma le tensioni più forti emergono soprattutto dalle lettere di Paolo e dagli Atti degli apostoli. Nelle epistole paoline vediamo l’apostolo impegnato in una battaglia senza quartiere per difendere le diverse comunità cui si rivolge dall’influenza di false dottrine, perlopiù diffuse da personaggi che si presentano essi stessi come cristiani: una battaglia, insomma, per promuovere un determinato e specifico cristianesimo contro altri.

Ma lo scontro più significativo, che emerge sia da quelle lettere che dalla narrazione degli Atti, è quello che si svolge all’interno di quello stesso cristianesimo che sarebbe poi stato riconosciuto come cattolico e ortodosso. Come si è detto, nel Nuovo Testamento si intreccia una tradizione più marcatamente ebraica con un’altra fortemente ellenizzante. Non si tratta di una differenza di mere sfumature culturali: corollario di tale diversità di prospettive è invece la questione dirimente e vitale consistente nel dover decidere se il cristianesimo avrebbe dovuto essere solo una delle tante scuole di pensiero giudaiche – come per esempio i sadducei o i farisei – il cui insegnamento avrebbe dovuto indirizzarsi esclusivamente o comunque prevalentemente al popolo ebraico; oppure era destinato a diventare una religione universale, il cui proselitismo si dovesse rivolgere anche – se non prevalentemente – ai gentili, ovvero ai non ebrei. La questione venne allora discussa nei termini apparentemente esteriori del problema della circoncisione: i gentili che volevano farsi cristiani avrebbe dovuto previamente farsi circoncidere, diventando così in un certo senso essi pure ebrei; oppure per loro tale pratica, imposta ai giudei dalla loro specifica tradizione religiosa, non era necessaria? Sostenitori della prima alternativa erano Pietro e, probabilmente, i familiari di Gesù, a cominciare dal fratello Giacomo, questi ultimi forse timorosi di perdere il prestigio che godevano all’interno della ristretta comunità dei seguaci ebrei del Cristo, qualora la nuova religione avesse allargato potenzialmente i propri orizzonti all’intera umanità; mentre Paolo propugnava la seconda prospettiva, ritenendo che la circoncisione della carne non fosse ormai più indispensabile, e dovesse essere sostituita da una spirituale circoncisione del cuore quale segno invisibile della conversione alla nuova fede. In una riunione svoltasi a Gerusalemme, che si deve immaginare assai concitata e che viene considerata come il primo concilio della storia della chiesa, prevalse sostanzialmente la posizione di Paolo, e con essa la possibilità per la chiesa cristiana di diventare universale, cioè cattolica: se nei secoli successivi Pietro e Paolo sono stati così spesso abbinati nella tradizione e nell’iconografia cristiana, questo non si deve affatto a un’inesistente unità di intenti dei due apostoli, bensì piuttosto all’esigenza di nascondere in qualche misura l’effettiva divergenza – quando non contrapposizione – che li aveva separati in vita. In ogni caso, la storia del giudeo-cristianesimo, ancora fortemente legato alla tradizione ebraica, non si esaurì con il cosiddetto concilio di Gerusalemme. Al contrario, esso sopravvisse ancora per parecchi secoli. La specificità di tale forma di cristianesimo risiedeva essenzialmente nel rifiuto della divinità di Gesù, evidentemente in contrasto con il rigido monoteismo degli ebrei. D’altra parte, bisogna riconoscere che tale divinità risulta solo da alcun i passi del Nuovo Testamento, di cui verosimilmente i giudeo-cristiani non riconoscevano il valore. È verosimile che all’inizio del VI secolo Mohamed, futuro fondatore della religione islamica, abbia incontrato alcuni degli ultimi epigoni di tale tradizione cristiana, da cui derivò il riconoscimento di Gesù come profeta, ma non come Dio.

In effetti, la questione dei rapporti con il passato giudaico fu una delle questioni che tormentò la vita delle comunità cristiane nei primissimi secoli; e all’estremo opposto rispetto ai giudeo-cristiani si collocarono per esempio i marcioniti, cioè i seguaci di Marcione, che nel II secolo ebbe una certa influenza nella stessa città di Roma. Nella loro versione, il cristianesimo doveva essere considerato una religione del tutto nuova, senza alcun rapporto con quella ebraica: ne conseguiva il rifiuto dell’intero Vecchio Testamento e – nell’ambito del Nuovo – il riconoscimento esclusivo di quelle parti che maggiormente marcavano la cesura nei confronti del giudaismo, come ad esempio le epistole paoline. Alla fine, come sappiamo, avrebbe prevalso una soluzione intermedia rispetto alla questione dei rapporti fra le due religioni, ben espressa dall’affermazione che l’insegnamento di Gesù aveva portato all’abolizione della legge degli ebrei e al tempo stesso al suo compimento: una formulazione non priva di ambiguità che nei secoli successivi avrebbe fatto spargere fiumi di inchiostro.

Come si è visto con riferimento al giudeo-cristianesimo, l’interpretazione della figura di Gesù fu al centro delle dispute nei primi secoli di vita della nuova religione. In effetti, il cristianesimo è la religione di Gesù, non perché egli – che era ebreo, non cristiano – ne sia stato il fondatore, ma piuttosto nel senso che esso gravita essenzialmente sul problema di come rispondere alla domanda posta dallo stesso Gesù ai discepoli nel vangelo di Marco: “Ma voi chi dite che io sia?”. La risposta data allora da Pietro – “Tu sei il Messia” – poteva essere interpretata nei modi più svariati, e così fu in effetti. Fra il III e il V secolo, i dibattiti all’interno del mondo cristiano ebbero a vertere essenzialmente su due questioni, peraltro fra loro strettamente connesse: quella cristologica – relativa cioè alla natura o alle nature del Cristo – e quella trinitaria – incentrata sulla relazione intercorrente fra le persone della Trinità. La complessità e la sottigliezza delle discussioni che si svolsero fra i teologi – che utilizzarono allora largamente gli strumenti concettuali della filosofia greca – venne ulteriormente complicata dagli intrecci fra questioni politiche e religiose che si verificò soprattutto nella parte orientale dell’impero romano, di cui il caso più noto e significativo è il concilio svoltosi nella città di Nicea nel 325, presieduto e di fatto largamente indirizzato dall’imperatore Costantino, peraltro a quell’epoca ancora non cristiano in quanto non battezzato: è comunque possibile tracciare una mappa semplificata delle soluzioni proposte.

Per quanto riguarda la questione trinitaria, il dibattito si svolse soprattutto attorno alla tesi proposta da Ario, il quale sosteneva che la natura del Cristo – il Figlio nell’ambito della Trinità – fosse inferiore, non uguale ma solo simile a quella del Padre. Tale dottrina venne condannata come eretica appunto nel concilio di Nicea, che ribadì la pari natura del Padre e del Figlio – e più in generale delle tre Persone – all’interno del rapporto trinitario: il decreto conciliare è alla base del “Credo” ancora oggi proclamato dalla maggior parte delle chiese cristiane, detto appunto “Credo niceno”, che sintetizza efficacemente l’idea della Trinità come una sola e identica natura divina articolata in tre persone distinte. Ma la storia dell’eresia di Ario non si concluse affatto a Nicea, e per tutto il IV secolo si alternarono al potere imperatori niceni e ariani. Che tanto si sia discusso attorno alla Trinità può apparire paradossale, se si tiene conto del fatto che da nessuna parte nel Nuovo Testamento – né peraltro nei vangeli apocrifi – si trova traccia di tale concetto. Cosa che nel XVI secolo venne riconosciuta da alcuni intellettuali umanisti, come il medico spagnolo Michele Serveto, che pagò la sua eresia con la morte sul rogo nella Ginevra riformata di Calvino, dove si era rifugiato per sfuggire ai rigori dell’Inquisizione cattolica; o i senesi Lelio e Fausto Socini, il cui insegnamento trovò un certo seguito in Polonia del Cinquecento, prima che quella nazione si chiudesse in un cattolicesimo intransigente e fanatico. Non può sfuggire, fra l’altro, l’anomala costituzione di questa particolarissima famiglia trinitaria, costituita da un padre e un figlio, ma dove la madre è sostituita dallo spirito, un terzo incomodo difficilmente definibile dal punto di vista del genere; questione forse parzialmente risolvibile considerando che il termine tradotto in italiano con “spirito” è maschile in latino (spiritus) e neutro in greco (pneûma), ma femminile in ebraico: la Trinità tornerebbe così a essere una famiglia più tradizionale. Lo Spirito sembrò comunque per lungo temo la persona più evanescente nell’ambito della Trinità, e forse proprio per questo motivo sarebbe rimasta relativamente marginale nella riflessione dei teologi fino ai secoli del medioevo inoltrato, quando nel XIII secolo il monaco calabrese Giacchino da Fiore ebbe a profetizzare, dopo l’età del Padre – precedente l’incarnazione – e quella del Figlio, l’avvento dell’età dello Spirito, che sarebbe stata dominata dall’amore reciproco fra gli uomini. In ogni caso, nel dibattito teologico e nei suoi addentellati politici, la questione trinitaria avrebbe giocato un ruolo importante ancora un millennio dopo la composizione dei libri del Nuovo Testamento: a metà dell’XI secolo lo scisma d’Oriente, che avrebbe separato da allora e fino a oggi la chiesa ortodossa greca da quella cattolica latina, ebbe la sua motivazione dottrinale fondamentale nella questione del Filioque, relativa a una diversa formulazione del Credo. Infatti, se i cristiani d’Oriente e d’Occidente erano d’accordo sul fatto che il Figlio, pur coeterno al Padre, fosse da esso generato; i primi ritenevano che lo Spirito procedesse dal Padre, mentre i secondi insistevano sul fatto che esso dovesse invece procedere dal Padre e dal Figlio (Filioque in latino). E questo fu considerato da entrambe le chiese motivo sufficiente non solo per separarsi, ma anche per scomunicarsi a vicenda.

La questione cristologica fu per molti versi ancora più tormentata, perché andava a toccare il nucleo stesso della fede cristiana: il paradosso di un dio sofferente. L’apostolo Paolo aveva riconosciuto in modo inequivoco la centralità dell’evento della croce, che secondo le sue parole costituiva “uno scandalo per gli ebrei e una follia per i pagani”, cioè per i filosofi greci. Nulla poteva infatti essere più lontano sia dalla concezione del dio ebraico che nel roveto ardente si era manifestato semplicemente come colui che è, definito così nella sua eternità e immutabilità; sia dalle imperturbabili divinità elleniche, la cui trascendenza era stata portata all’estremo dalla riflessione filosofica neoplatonica tardoantica. La questione cristologica riflette in effetti proprio le tensioni interne al primo cristianesimo fra tendenze giudaizzanti ed ellenizzanti. Da un lato, come si è visto, il giudeo-cristianesimo aveva semplicemente rifiutato la divinità del Cristo, salvando così Dio da qualsiasi coinvolgimento con la passione. Dall’altro, devono verosimilmente essere ascritte a influenze del pensiero filosofico greco altre posizioni relative alla figura di Gesù destinate poi a essere considerate come eterodosse. Si ebbe così in primo luogo il monofisismo, sostenuto dal vescovo Cirillo di Alessandria Egitto, che riconosceva nel Cristo un’unica (mónē) natura (phýsis) divina. Possibile corollario radicale del monofisismo era poi il docetismo che considerava meramente apparente (dal greco dokéō = “credo”, “ritengo”) la corporeità di Cristo e dunque la stessa passione: anche così la divinità veniva tenuta al riparo dalla sofferenza e dall’umiliazione della croce. Medesimo risultato poteva essere conseguito dalla tesi sostenuta da Nestorio. Se il monofisismo riconosceva in Cristo un’unica natura e un’unica persona, il nestorianesimo all’opposto – semplificando un po’ – sosteneva l’esistenza in lui di due persone e di due nature, una umana che aveva patito sulla croce e una divina che alla passione era rimasta estranea. Ancora una volta, come già nel caso della questione trinitaria, anche quella cristologica venne risolta a favore di una soluzione intermedia, adottata nel concilio di Calcedonia del 451, secondo la quale nell’unica persona di Gesù erano convissute inscindibilmente la natura umana e quella divina. La posizione calcedoniana, ancora oggi condivisa dalla maggior parte delle chiese, accettava dunque fino in fondo il paradosso paolino del dio sofferente: proprio la paradossalità della fede avrebbe anche nei secoli seguenti sostenuto le più profonde e intense riflessioni ed esperienze cristiane, da quelle di Lutero e di Pascal a quella di Kierkegaard. Né mancò chi dal calcedonianismo volle trarre conclusioni estreme, come i patripassiani, ovvero coloro che, dal fatto che nel Cristo crocifisso era presente anche la natura divina credettero di dover dedurre che pure il Padre, unito al Figlio in quell’unica natura, aveva partecipato in qualche misura alla medesima passione. E, anche in questo caso, né il nestorianesimo né il monofisismo scomparvero del tutto. Il primo era stato condannato dal concilio di Efeso del 431, ma i suoi seguaci, perseguitati nell’Impero bizantino, trovarono accoglienza e protezione nel vicino Impero persiano sasanide, potendosi così diffondere fino ai confini della Cina: nel medioevo l’esistenza di comunità nestoriane in quelle remote regioni fu probabilmente all’origine della leggenda del Prete Gianni, un mitico sovrano cristiano che avrebbe governato ampi quanto imprecisati territori dell’Asia e forse un giorno sarebbe potuto venire in soccorso dell’Europa nel suo scontro mortale con l’islam. Quanto al monofisismo, nel VI secolo Giustiniano, tentando di sanare i conflitti religiosi che dilaniavano l’impero, si fece promotore di una versione attenuata di tale dottrina, il monotelismo, sostenitore dell’esistenza nella persona di Gesù di entrambe le nature, divina e umana, con la precisazione tuttavia che la volontà divina prevaleva in ogni caso su quella umana, diventando così di fatto l’unica volontà (thélēma) del Cristo. Il tentativo di Giustiniano – che gli verrà rimproverato da Dante nel VI canto del Paradiso come inaccettabile ammiccamento a posizioni eretiche – andò incontro a un sostanziale fallimento, ma forme di monotelismo sono comunque sopravvissute fino a oggi: è questo caso della chiesa cristiana maronita, diffusa soprattutto in Libano, che riconosce comunque l’autorità del papa di Roma.

L’accanimento con cui in quei secoli lontani ci si scontrò intorno alle più sottili questioni teologiche potrà apparire a molti del tutto irragionevole, ma non si deve dimenticare che fra la tarda antichità e i primi secoli dell’età moderna il peso della religione nella vita collettiva e individuale delle persone era enormemente maggiore di oggi: all’epoca di Giustiniano monofisiti e calcedoniani non erano soltanto fazioni religiose, ma anche partiti politici contrapposti e rissose tifoserie sportive della corsa con i carri nello stadio di Costantinopoli, contraddistinte rispettivamente dai colori verde e azzurro; nell’Africa settentrionale del IV secolo l’eresia donatista, nata originariamente sulla questione della validità dei sacramenti impartiti da coloro che avevano abiurato durante le ultime persecuzioni anticristiane, finì per convogliare la protesta sociale ed economica delle popolazioni rurali emarginate e sfruttate di origine punica contro i ceti urbani privilegiati del capoluogo Cartagine; quanto all’arianesimo, oltre a essere per circa un secolo uno degli elementi dei conflitti ai vertici dell’Impero, nel IV secolo buona parte delle popolazioni germaniche – dai goti ai vandali – fu convertita a quella versione del cristianesimo dal vescovo goto Ulfila (il cui nome in antico germanico significa “lupetto”), e da allora essa divenne uno dei fattori della loro identità nazionale nel confronto-scontro con il mondo romano In ogni caso, tutte le discussioni e le lacerazioni che abbiamo brevemente descritto non esauriscono il quadro delle eresie dei primi secoli. Accanto a esse, infatti, fluiva fin dall’inizio un fiume carsico, che scorreva un po’ all’interno e un po’ all’esterno del corpo del mondo cristiano, già di per sé variegato e multiforme: era questa la gnosi, le cui radici, per alcuni versi precedenti alla stessa nascita del cristianesimo, si sarebbero sviluppate in complesse ramificazioni ben al di là della tarda antichità, fino a tutto il medioevo e oltre. Ma questa è – almeno in parte – un’altra storia.