Eretico a chi?
Marco Chiauzza
Storico
La storia del cristianesimo è punteggiata dal sorgere e dall’estinguersi di una grande quantità di eresie, talmente numerose che è assai difficile classificarle o anche solo elencarle in modo esaustivo. Per impostare un’analisi dei movimenti ereticali è innanzitutto necessario precisare che nessuno di essi si è mai dichiarato tale. Il termine “eretico” è semmai stato utilizzato in senso spregiativo per indicare chi non apparteneva all’unica vera chiesa e non condivideva le giuste dottrine da essa proclamate. Da questo punto di vista, “eretico” è l’opposto per un verso di “cattolico” e per l’altro di “ortodosso”(si ricordi che solo a metà dell’XI secolo si ebbe la separazione fra la chiesa occidentale, oggi conosciuta come “cattolica”, e quella orientale, che da allora ha riservato a sé l’appellativo di “ortodossa”): in greco, infatti, katholikós significa “universale” – e la comunità dei fedeli non può che essere universale -, mentre il termine “ortodosso” indica il possesso della retta (orthós) dottrina (dóxa) in materia di fede. Per chi considerava sé stesso cattolico e ortodosso, eretico era allora chi aveva scelto di dare la propria adesione (aíresis, da cui “eresia”) a un gruppo distinto e separato dall’unica vera chiesa: in termini moderni, l’eresia era dunque una setta. Ma naturalmente ciascuno pensava che la vera chiesa fosse la propria, e la giusta dottrina quella in cui egli stesso credeva: insomma, ognuno era l’eretico di qualcun altro.
In effetti, ogni fedele pensava che solo la propria chiesa – cioè l’assemblea (ekklesía) dei fedeli – seguisse fedelmente l’insegnamento del fondatore, Gesù il Cristo; ma oggi siamo consapevoli che nessuno sa esattamente chi sia stato Gesù e quali siano stati in realtà i contenuti del suo insegnamento. Nel Cinquecento, alcuni riformatori pensarono di poter restaurare gli autentici contenuti della fede cristiana liberandola dalle illegittime incrostazioni che l’avevano alterata nei secoli del medioevo, e ritennero per questo di doversi fondare esclusivamente sul testo del Nuovo Testamento: sola scriptura – “solo per mezzo della Scrittura” – fu infatti il motto di Lutero. Ma si trattava di un’illusione. È infatti un errore pensare che fin dall’inizio le prime comunità cristiane si siano fondate sull’insegnamento del Vangelo. È piuttosto vero il contrario: ogni comunità venne elaborando testi sulla base della narrazione dei fatti e dei detti di Gesù così come erano riportati – perlopiù di seconda mano – da alcuni personaggi che godevano di particolare prestigio o influenza presso quello specifico gruppo. Si può dire, insomma, che non è stato il Vangelo a costituire il fondamento della fede dei primi cristiani; ma piuttosto che le singole comunità primitive hanno progressivamente dato origine a testi, alcuni dei quali sono poi confluiti nella raccolta che oggi conosciamo come Nuovo Testamento.
In effetti, solo nel IV secolo la chiesa – o meglio quella particolare chiesa cristiana che stava ormai diventando dominante grazie all’appoggio delle autorità imperiali romane – stabilì ufficialmente il canone degli scritti neotestamentari, stabilendo in sostanza quali, fra i numerosissimi scritti che la più antica tradizione cristiana aveva prodotto, dovessero essere riconosciuti come fondamento della fede. Tutti gli altri sono stati da allora considerati “apocrifi”, con un termine che oggi è perlopiù considerato sinonimo di “falso” o comunque “non autentico”, ma che in realtà significa “nascosto” o “segreto”, a suggerire che in essi si riteneva fosse depositata una tradizione in qualche misura esoterica, che riportava fatti e detti di Gesù non reperibili nella versione ormai diventata ufficiale del Vangelo. Come c’è da aspettarsi, quei testi sono andati in gran parte perduti, ma alcuni di essi si sono conservati più o meno frammentariamente, o perché citati da autori ortodossi con l’intento di confutarne i contenuti, o perché gli archeologi ne hanno recuperato copie in quelle che dovevano essere le biblioteche di antiche comunità eterodosse, cioè seguaci di una dottrina “altra” (héteros) rispetto a quella maggioritariamente ritenuta ortodossa. In realtà, è bene ricordare che, anche se alcuni dei cosiddetti vangeli apocrifi sono stati considerati falsi ed eretici, ciò non è vero per tutti: in certi casi, infatti, essi sono stati semplicemente ritenuti non canonici, cioè esclusi dalla raccolta ufficiale e dunque non utilizzabili quali fondamento della fede, ma sono stati comunque in qualche misura tollerati e hanno così contribuito all’affermarsi di alcune tradizioni all’interno del mondo cristiano.
La più famosa di esse è certamente quella del presepe, con tanto di bue e asino. L’invenzione del presepe è attribuita a Francesco di Assisi, ma essa si radica in una vicenda assai più antica e per molti versi interessante. Per la fede cristiana, la nascita di Gesù rappresenta l’evento fondamentale della storia, che segna una cesura radicale e irreversibile fra due epoche. Il Cristo, dunque, nasce al confine fra due ere. Ma in greco il termine che significa “era” e quello che indica “essere” e quindi anche “essere vivente” sono molto simili; e così in qualche momento deve essersi verificata una confusione, magari in quell’ambiente palestinese in cui il greco era pur sempre una lingua straniera e dunque non così familiare: a seguito di tale equivoco, si iniziò a pensare che Gesù non era solo nato a segnare il discrimine fra due epoche della storia della salvezza, ma anche, assai più prosaicamente, fra due animali. Ma quali potevano essere? Intervenne qui il ricordo della tradizione profetica dell’Antico Testamento, che anche altre volte avrebbe fornito materiale all’elaborazione dell’immaginario cristiano, come quando i quattro esseri contemplati in visione dal profeta Daniele divennero i simboli dei quattro vangeli. Nel nostro caso, nel libro di Isaia si legge che “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone; Israele non ha conoscenza, il mio popolo non ha intelligenza” (Isa 1: 2-3)”. Ecco dunque perché proprio quegli animali compariranno in un vangelo apocrifo – e poi nel presepe – a fianco di Gesù bambino, a rappresentare gli umili che riconoscono il loro salvatore a differenza di molti potenti e sapienti del mondo.
In ogni caso, come si è visto, la pluralità di tradizioni – e dunque di eresie – è antica quanto il cristianesimo stesso. La stessa figura di Gesù si presenta in modi assai diversi nei differenti testi che ci sono pervenuti, canonici o apocrifi che siano: in alcuni di questi ultimi, in particolare, essa compare a volte non già come quella di un maestro che insegna l’amore del prossimo, ma piuttosto come quella di un personaggio certo eccezionale, ma dal carattere assai vendicativo, pronto a uccidere con i propri poteri chiunque gli si opponga; oppure come una sorta di entità metafisica, ben lontana dalla concretezza umana con cui è descritta da altre fonti. Anche se oggi non sono più molti gli studiosi che giungono a negare la realtà storica della figura di Gesù, dobbiamo dunque riconoscere che di essa non sappiamo praticamente nulla, ed è impossibile sapere se si sia trattato di un capo rivoluzionario, di un riformatore politico, di un profeta, di un leader religioso o di altro ancora. Ancora una volta, bisogna ammettere che non si deve tanto pensare al Gesù storico e al suo insegnamento quale fondamento del cristianesimo, ma sia piuttosto ragionevole vedere nelle differenti immagini di Gesù che ci sono state tramandate il riflesso delle molteplici elaborazioni della sua figura operate nelle diverse comunità cristiane delle origini.
Tracce di tale pluralità sono d’altronde riscontrabili all’interno stesso dell’attuale canone neotestamentario, che risente delle specificità – e a volte delle reciproche ostilità – dei vari gruppi nell’ambito dei quali sono stati elaborati i diversi testi che lo compongono. Per esempio, se i vangeli di Marco e Matteo sono stati palesemente composti da ebrei per ebrei; quelli di Luca e Giovanni sono nati in ambienti anch’essi certamente giudaici ma fortemente influenzati dalla cultura greca. In particolare, l’autore del vangelo di Giovanni – che, come gli studi hanno ormai largamente riconosciuto, non è né l’apostolo né il compositore della più tarda Apocalisse – parla esplicitamente di un’esistenza eterna del Cristo prima dell’incarnazione come Logos, un’espressione greca in cui si fonde l’idea giudaica della parola creatrice di Dio e il concetto tutto ellenico della divina ragione universale, risalente alla tradizione filosofica stoica e platonica. Ma le tensioni più forti emergono soprattutto dalle lettere di Paolo e dagli Atti degli apostoli. Nelle epistole paoline vediamo l’apostolo impegnato in una battaglia senza quartiere per difendere le diverse comunità cui si rivolge dall’influenza di false dottrine, perlopiù diffuse da personaggi che si presentano essi stessi come cristiani: una battaglia, insomma, per promuovere un determinato e specifico cristianesimo contro altri.
Ma lo scontro più significativo, che emerge sia da quelle lettere che dalla narrazione degli Atti, è quello che si svolge all’interno di quello stesso cristianesimo che sarebbe poi stato riconosciuto come cattolico e ortodosso. Come si è detto, nel Nuovo Testamento si intreccia una tradizione più marcatamente ebraica con un’altra fortemente ellenizzante. Non si tratta di una differenza di mere sfumature culturali: corollario di tale diversità di prospettive è invece la questione dirimente e vitale consistente nel dover decidere se il cristianesimo avrebbe dovuto essere solo una delle tante scuole di pensiero giudaiche – come per esempio i sadducei o i farisei – il cui insegnamento avrebbe dovuto indirizzarsi esclusivamente o comunque prevalentemente al popolo ebraico; oppure era destinato a diventare una religione universale, il cui proselitismo si dovesse rivolgere anche – se non prevalentemente – ai gentili, ovvero ai non ebrei. La questione venne allora discussa nei termini apparentemente esteriori del problema della circoncisione: i gentili che volevano farsi cristiani avrebbe dovuto previamente farsi circoncidere, diventando così in un certo senso essi pure ebrei; oppure per loro tale pratica, imposta ai giudei dalla loro specifica tradizione religiosa, non era necessaria? Sostenitori della prima alternativa erano Pietro e, probabilmente, i familiari di Gesù, a cominciare dal fratello Giacomo, questi ultimi forse timorosi di perdere il prestigio che godevano all’interno della ristretta comunità dei seguaci ebrei del Cristo, qualora la nuova religione avesse allargato potenzialmente i propri orizzonti all’intera umanità; mentre Paolo propugnava la seconda prospettiva, ritenendo che la circoncisione della carne non fosse ormai più indispensabile, e dovesse essere sostituita da una spirituale circoncisione del cuore quale segno invisibile della conversione alla nuova fede. In una riunione svoltasi a Gerusalemme, che si deve immaginare assai concitata e che viene considerata come il primo concilio della storia della chiesa, prevalse sostanzialmente la posizione di Paolo, e con essa la possibilità per la chiesa cristiana di diventare universale, cioè cattolica: se nei secoli successivi Pietro e Paolo sono stati così spesso abbinati nella tradizione e nell’iconografia cristiana, questo non si deve affatto a un’inesistente unità di intenti dei due apostoli, bensì piuttosto all’esigenza di nascondere in qualche misura l’effettiva divergenza – quando non contrapposizione – che li aveva separati in vita. In ogni caso, la storia del giudeo-cristianesimo, ancora fortemente legato alla tradizione ebraica, non si esaurì con il cosiddetto concilio di Gerusalemme. Al contrario, esso sopravvisse ancora per parecchi secoli. La specificità di tale forma di cristianesimo risiedeva essenzialmente nel rifiuto della divinità di Gesù, evidentemente in contrasto con il rigido monoteismo degli ebrei. D’altra parte, bisogna riconoscere che tale divinità risulta solo da alcun i passi del Nuovo Testamento, di cui verosimilmente i giudeo-cristiani non riconoscevano il valore. È verosimile che all’inizio del VI secolo Mohamed, futuro fondatore della religione islamica, abbia incontrato alcuni degli ultimi epigoni di tale tradizione cristiana, da cui derivò il riconoscimento di Gesù come profeta, ma non come Dio.
In effetti, la questione dei rapporti con il passato giudaico fu una delle questioni che tormentò la vita delle comunità cristiane nei primissimi secoli; e all’estremo opposto rispetto ai giudeo-cristiani si collocarono per esempio i marcioniti, cioè i seguaci di Marcione, che nel II secolo ebbe una certa influenza nella stessa città di Roma. Nella loro versione, il cristianesimo doveva essere considerato una religione del tutto nuova, senza alcun rapporto con quella ebraica: ne conseguiva il rifiuto dell’intero Vecchio Testamento e – nell’ambito del Nuovo – il riconoscimento esclusivo di quelle parti che maggiormente marcavano la cesura nei confronti del giudaismo, come ad esempio le epistole paoline. Alla fine, come sappiamo, avrebbe prevalso una soluzione intermedia rispetto alla questione dei rapporti fra le due religioni, ben espressa dall’affermazione che l’insegnamento di Gesù aveva portato all’abolizione della legge degli ebrei e al tempo stesso al suo compimento: una formulazione non priva di ambiguità che nei secoli successivi avrebbe fatto spargere fiumi di inchiostro.
Come si è visto con riferimento al giudeo-cristianesimo, l’interpretazione della figura di Gesù fu al centro delle dispute nei primi secoli di vita della nuova religione. In effetti, il cristianesimo è la religione di Gesù, non perché egli – che era ebreo, non cristiano – ne sia stato il fondatore, ma piuttosto nel senso che esso gravita essenzialmente sul problema di come rispondere alla domanda posta dallo stesso Gesù ai discepoli nel vangelo di Marco: “Ma voi chi dite che io sia?”. La risposta data allora da Pietro – “Tu sei il Messia” – poteva essere interpretata nei modi più svariati, e così fu in effetti. Fra il III e il V secolo, i dibattiti all’interno del mondo cristiano ebbero a vertere essenzialmente su due questioni, peraltro fra loro strettamente connesse: quella cristologica – relativa cioè alla natura o alle nature del Cristo – e quella trinitaria – incentrata sulla relazione intercorrente fra le persone della Trinità. La complessità e la sottigliezza delle discussioni che si svolsero fra i teologi – che utilizzarono allora largamente gli strumenti concettuali della filosofia greca – venne ulteriormente complicata dagli intrecci fra questioni politiche e religiose che si verificò soprattutto nella parte orientale dell’impero romano, di cui il caso più noto e significativo è il concilio svoltosi nella città di Nicea nel 325, presieduto e di fatto largamente indirizzato dall’imperatore Costantino, peraltro a quell’epoca ancora non cristiano in quanto non battezzato: è comunque possibile tracciare una mappa semplificata delle soluzioni proposte.
Per quanto riguarda la questione trinitaria, il dibattito si svolse soprattutto attorno alla tesi proposta da Ario, il quale sosteneva che la natura del Cristo – il Figlio nell’ambito della Trinità – fosse inferiore, non uguale ma solo simile a quella del Padre. Tale dottrina venne condannata come eretica appunto nel concilio di Nicea, che ribadì la pari natura del Padre e del Figlio – e più in generale delle tre Persone – all’interno del rapporto trinitario: il decreto conciliare è alla base del “Credo” ancora oggi proclamato dalla maggior parte delle chiese cristiane, detto appunto “Credo niceno”, che sintetizza efficacemente l’idea della Trinità come una sola e identica natura divina articolata in tre persone distinte. Ma la storia dell’eresia di Ario non si concluse affatto a Nicea, e per tutto il IV secolo si alternarono al potere imperatori niceni e ariani. Che tanto si sia discusso attorno alla Trinità può apparire paradossale, se si tiene conto del fatto che da nessuna parte nel Nuovo Testamento – né peraltro nei vangeli apocrifi – si trova traccia di tale concetto. Cosa che nel XVI secolo venne riconosciuta da alcuni intellettuali umanisti, come il medico spagnolo Michele Serveto, che pagò la sua eresia con la morte sul rogo nella Ginevra riformata di Calvino, dove si era rifugiato per sfuggire ai rigori dell’Inquisizione cattolica; o i senesi Lelio e Fausto Socini, il cui insegnamento trovò un certo seguito in Polonia del Cinquecento, prima che quella nazione si chiudesse in un cattolicesimo intransigente e fanatico. Non può sfuggire, fra l’altro, l’anomala costituzione di questa particolarissima famiglia trinitaria, costituita da un padre e un figlio, ma dove la madre è sostituita dallo spirito, un terzo incomodo difficilmente definibile dal punto di vista del genere; questione forse parzialmente risolvibile considerando che il termine tradotto in italiano con “spirito” è maschile in latino (spiritus) e neutro in greco (pneûma), ma femminile in ebraico: la Trinità tornerebbe così a essere una famiglia più tradizionale. Lo Spirito sembrò comunque per lungo temo la persona più evanescente nell’ambito della Trinità, e forse proprio per questo motivo sarebbe rimasta relativamente marginale nella riflessione dei teologi fino ai secoli del medioevo inoltrato, quando nel XIII secolo il monaco calabrese Giacchino da Fiore ebbe a profetizzare, dopo l’età del Padre – precedente l’incarnazione – e quella del Figlio, l’avvento dell’età dello Spirito, che sarebbe stata dominata dall’amore reciproco fra gli uomini. In ogni caso, nel dibattito teologico e nei suoi addentellati politici, la questione trinitaria avrebbe giocato un ruolo importante ancora un millennio dopo la composizione dei libri del Nuovo Testamento: a metà dell’XI secolo lo scisma d’Oriente, che avrebbe separato da allora e fino a oggi la chiesa ortodossa greca da quella cattolica latina, ebbe la sua motivazione dottrinale fondamentale nella questione del Filioque, relativa a una diversa formulazione del Credo. Infatti, se i cristiani d’Oriente e d’Occidente erano d’accordo sul fatto che il Figlio, pur coeterno al Padre, fosse da esso generato; i primi ritenevano che lo Spirito procedesse dal Padre, mentre i secondi insistevano sul fatto che esso dovesse invece procedere dal Padre e dal Figlio (Filioque in latino). E questo fu considerato da entrambe le chiese motivo sufficiente non solo per separarsi, ma anche per scomunicarsi a vicenda.
La questione cristologica fu per molti versi ancora più tormentata, perché andava a toccare il nucleo stesso della fede cristiana: il paradosso di un dio sofferente. L’apostolo Paolo aveva riconosciuto in modo inequivoco la centralità dell’evento della croce, che secondo le sue parole costituiva “uno scandalo per gli ebrei e una follia per i pagani”, cioè per i filosofi greci. Nulla poteva infatti essere più lontano sia dalla concezione del dio ebraico che nel roveto ardente si era manifestato semplicemente come colui che è, definito così nella sua eternità e immutabilità; sia dalle imperturbabili divinità elleniche, la cui trascendenza era stata portata all’estremo dalla riflessione filosofica neoplatonica tardoantica. La questione cristologica riflette in effetti proprio le tensioni interne al primo cristianesimo fra tendenze giudaizzanti ed ellenizzanti. Da un lato, come si è visto, il giudeo-cristianesimo aveva semplicemente rifiutato la divinità del Cristo, salvando così Dio da qualsiasi coinvolgimento con la passione. Dall’altro, devono verosimilmente essere ascritte a influenze del pensiero filosofico greco altre posizioni relative alla figura di Gesù destinate poi a essere considerate come eterodosse. Si ebbe così in primo luogo il monofisismo, sostenuto dal vescovo Cirillo di Alessandria Egitto, che riconosceva nel Cristo un’unica (mónē) natura (phýsis) divina. Possibile corollario radicale del monofisismo era poi il docetismo che considerava meramente apparente (dal greco dokéō = “credo”, “ritengo”) la corporeità di Cristo e dunque la stessa passione: anche così la divinità veniva tenuta al riparo dalla sofferenza e dall’umiliazione della croce. Medesimo risultato poteva essere conseguito dalla tesi sostenuta da Nestorio. Se il monofisismo riconosceva in Cristo un’unica natura e un’unica persona, il nestorianesimo all’opposto – semplificando un po’ – sosteneva l’esistenza in lui di due persone e di due nature, una umana che aveva patito sulla croce e una divina che alla passione era rimasta estranea. Ancora una volta, come già nel caso della questione trinitaria, anche quella cristologica venne risolta a favore di una soluzione intermedia, adottata nel concilio di Calcedonia del 451, secondo la quale nell’unica persona di Gesù erano convissute inscindibilmente la natura umana e quella divina. La posizione calcedoniana, ancora oggi condivisa dalla maggior parte delle chiese, accettava dunque fino in fondo il paradosso paolino del dio sofferente: proprio la paradossalità della fede avrebbe anche nei secoli seguenti sostenuto le più profonde e intense riflessioni ed esperienze cristiane, da quelle di Lutero e di Pascal a quella di Kierkegaard. Né mancò chi dal calcedonianismo volle trarre conclusioni estreme, come i patripassiani, ovvero coloro che, dal fatto che nel Cristo crocifisso era presente anche la natura divina credettero di dover dedurre che pure il Padre, unito al Figlio in quell’unica natura, aveva partecipato in qualche misura alla medesima passione. E, anche in questo caso, né il nestorianesimo né il monofisismo scomparvero del tutto. Il primo era stato condannato dal concilio di Efeso del 431, ma i suoi seguaci, perseguitati nell’Impero bizantino, trovarono accoglienza e protezione nel vicino Impero persiano sasanide, potendosi così diffondere fino ai confini della Cina: nel medioevo l’esistenza di comunità nestoriane in quelle remote regioni fu probabilmente all’origine della leggenda del Prete Gianni, un mitico sovrano cristiano che avrebbe governato ampi quanto imprecisati territori dell’Asia e forse un giorno sarebbe potuto venire in soccorso dell’Europa nel suo scontro mortale con l’islam. Quanto al monofisismo, nel VI secolo Giustiniano, tentando di sanare i conflitti religiosi che dilaniavano l’impero, si fece promotore di una versione attenuata di tale dottrina, il monotelismo, sostenitore dell’esistenza nella persona di Gesù di entrambe le nature, divina e umana, con la precisazione tuttavia che la volontà divina prevaleva in ogni caso su quella umana, diventando così di fatto l’unica volontà (thélēma) del Cristo. Il tentativo di Giustiniano – che gli verrà rimproverato da Dante nel VI canto del Paradiso come inaccettabile ammiccamento a posizioni eretiche – andò incontro a un sostanziale fallimento, ma forme di monotelismo sono comunque sopravvissute fino a oggi: è questo caso della chiesa cristiana maronita, diffusa soprattutto in Libano, che riconosce comunque l’autorità del papa di Roma.
L’accanimento con cui in quei secoli lontani ci si scontrò intorno alle più sottili questioni teologiche potrà apparire a molti del tutto irragionevole, ma non si deve dimenticare che fra la tarda antichità e i primi secoli dell’età moderna il peso della religione nella vita collettiva e individuale delle persone era enormemente maggiore di oggi: all’epoca di Giustiniano monofisiti e calcedoniani non erano soltanto fazioni religiose, ma anche partiti politici contrapposti e rissose tifoserie sportive della corsa con i carri nello stadio di Costantinopoli, contraddistinte rispettivamente dai colori verde e azzurro; nell’Africa settentrionale del IV secolo l’eresia donatista, nata originariamente sulla questione della validità dei sacramenti impartiti da coloro che avevano abiurato durante le ultime persecuzioni anticristiane, finì per convogliare la protesta sociale ed economica delle popolazioni rurali emarginate e sfruttate di origine punica contro i ceti urbani privilegiati del capoluogo Cartagine; quanto all’arianesimo, oltre a essere per circa un secolo uno degli elementi dei conflitti ai vertici dell’Impero, nel IV secolo buona parte delle popolazioni germaniche – dai goti ai vandali – fu convertita a quella versione del cristianesimo dal vescovo goto Ulfila (il cui nome in antico germanico significa “lupetto”), e da allora essa divenne uno dei fattori della loro identità nazionale nel confronto-scontro con il mondo romano In ogni caso, tutte le discussioni e le lacerazioni che abbiamo brevemente descritto non esauriscono il quadro delle eresie dei primi secoli. Accanto a esse, infatti, fluiva fin dall’inizio un fiume carsico, che scorreva un po’ all’interno e un po’ all’esterno del corpo del mondo cristiano, già di per sé variegato e multiforme: era questa la gnosi, le cui radici, per alcuni versi precedenti alla stessa nascita del cristianesimo, si sarebbero sviluppate in complesse ramificazioni ben al di là della tarda antichità, fino a tutto il medioevo e oltre. Ma questa è – almeno in parte – un’altra storia.