Tutto il male del mondo

Marco Chiauzza
Storico

I primi secoli del cristianesimo furono caratterizzati dal fiorire di innumerevoli varianti della nuova fede, e dai dibattiti – spesso feroci – che videro contrapporsi i loro più significativi rappresentanti. Soprattutto nel corso del IV secolo si svilupparono le più importanti fra quelle che più tardi sarebbero state considerate eresie, perlopiù incentrate sulla natura del Cristo e sulla relazione intercorrente fra le persone della trinità divina: dall’arianesimo, al monofisismo, al nestorianesimo, e alle loro sottili e difficilmente distinguibili ulteriori sfumature. Ma prima ancora di quelle discussioni – bizantine per definizione, visto che ebbero luogo nei secoli del tardo impero e in particolare nella sua parte orientale governata da Costantinopoli, l’antica Bisanzio – fra II e III secolo il medesimo mondo romano – ma anche alcuni territori oltre i suoi confini, come quelli dell’impero persiano sasanide – furono percorsi da altri fermenti, noti perlopiù con il nome collettivo di gnosticismo, essi pure spesso ma semplicisticamente ricondotti alla categoria delle eresie cristiane. In effetti, quest’ultima etichetta è almeno parzialmente impropria, perché presuppone una divaricazione di posizioni differenti a partire da un unico insegnamento – quello, reale o presunto, di Gesù di Nazareth -; mentre lo gnosticismo non è tanto un sottoinsieme dell’insieme più ampio costituito dal cristianesimo, ma si configura piuttosto come un altro insieme intersecantesi con quest’ultimo: insomma, non solo non tutto il cristianesimo è gnostico, ma neppure lo gnosticismo si esaurisce integralmente all’interno del cristianesimo. D’altra parte, esso si sviluppa in un’epoca in cui nel mondo religioso romano e mediterraneo si affermano forti tendenze sincretistiche, che portano le diverse credenze religiose a ibridarsi, in molti casi fino a confondersi: sono questi, infatti, gli anni in cui perfino presso alcuni esponenti della dinastia imperiale dei Severi – in particolare le donne della famiglia – vengono venerati insieme le divinità della tradizione greco-romana e quelle importate dall’Oriente, in un panteon variegato in cui a volte non sfigurano neppure personaggi come Mosè e Gesù.

Ma che cos’è, allora, lo gnosticismo? Il nome di questo variegato complesso di correnti di pensiero evoca intanto uno dei concetti fondamentali attorno ai quali esso si struttura, quello di gnosi. In greco quest’ultima parola significa semplicemente “conoscenza”, e ha la medesima radice del latino cognoscere, da cui deriva, appunto, l’italiano “conoscere”. Il primo nucleo concettuale comune a tutte le correnti gnostiche è dunque quello secondo il quale la salvezza oltremondana dell’individuo dipende dalla conoscenza di una serie di dottrine: si salva chi sa. Ma il termine “gnosi” non deve trarre in inganno. Lo gnosticismo non si presenta infatti come una lettura razionalista della religione cristiana – o della religione in generale – fondata sulla convinzione che il fedele debba raggiungere o quantomeno chiarire i contenuti delle proprie credenze grazie a uno sforzo di comprensione intellettuale. La conoscenza che salva lo gnostico è infatti una conoscenza rivelata da quella stessa dimensione superiore e divina cui egli tenta disperatamente di ricongiungersi. Per questo motivo lo gnosticismo è e resta una modalità dell’esperienza religiosa e non può in alcun caso essere considerato una corrente filosofica. Eppure, è innegabile in esso una tendenza – a volte ossessiva – all’elaborazione concettuale delle dottrine, che condusse ogni setta gnostica a elaborare una propria complessa e spesso lussureggiante mitologia, che non trascura di utilizzare ai propri fini parte del patrimonio concettuale elaborato dalla tradizione filosofica precedente e contemporanea.

Ma, una volta precisata l’origine della conoscenza gnostica, quale ne è il contenuto? Si tratta di una domanda cui è impossibile fornire una risposta univoca, data la pluralità e frammentarietà delle diverse sette gnostiche e delle loro credenze, peraltro perlopiù a noi note – come avviene per quasi tutte le “eresie” – attraverso le testimonianze degli avversari che intendevano confutarle, in molti casi, dunque, inficiate da una non nascosta intenzione polemica. Eppure, anche in questo caso, qualche tratto comune può essere individuato. Diciamo che la gnosi è in primo luogo una forma di sentimento religioso: lo gnostico è colui che sente di essere imprigionato in questo mondo ma di non appartenervi, secondo una prospettiva che molti secoli dopo sarebbe stata condivisa anche da certo romanticismo e da certo esistenzialismo. Un’immagine può illustrare efficacemente tale sentimento. Per la maggior parte delle filosofie e cosmologie antiche le sfere celesti – concepite perlopiù non come semplici orbite, ma come sfere reali e fisiche che circondavano la Terra, perlopiù pensata al centro dell’universo – erano l’espressione più alta dell’armonia e dell’ordine divino che reggevano il mondo: non si dimentichi che il termine greco kósmos significa originariamente proprio “ordine”. Al contrario, per molti gruppi gnostici, esse rappresentano invece le pareti concentriche di un carcere che impedisce all’uomo di tornare alle proprie origini celesti. Perché in effetti l’uomo – o meglio l’essere umano, dal momento che alcune sette ne affermano esplicitamente il carattere androgino prima della caduta – partecipa nella sua essenza a una condizione di divina perfezione originaria da cui è precipitato.

Ma quale è stata la causa di tale catastrofe? Come sappiamo, il tema della caduta è ben presente nella tradizione cristiana. Tuttavia, nel libro della Genesi, almeno nell’interpretazione che più ci è familiare, il mondo nel quale viviamo ha una connotazione essenzialmente positiva. Esso è il frutto della sapienza di Dio, che della sua creazione si è compiaciuto: “E Dio vide che ciò era buono”. Di questo paradiso terrestre l’uomo è stato posto al vertice, per governarlo e custodirlo. La caduta sopraggiunge dopo, quando la coppia originaria si ribella contro il proprio creatore, trascinando nell’abisso l’intero creato. Solo da quel momento l’uomo – e tutto il mondo con esso –, perduta l’innocenza originaria, rimane in attesa di un salvatore che possa redimerlo: la frattura provocata dalla tragedia del peccato originale – compiuto da un singolo, ma che ha trascinato l’intera umanità e il cosmo stesso nell’abisso – potrà allora essere sanata nel sacrificio di un solo uomo, Gesù il Cristo, che è però anche Dio incarnato. Per il cristianesimo – almeno nelle sue varianti che sarebbero poi state riconosciute come ortodosse – la caduta è dunque successiva alla creazione, che è originariamente buona e in ogni caso destinata a essere redenta. Ben diversa è invece la visione gnostica, per la quale la creazione è l’effetto della caduta, e quasi si identifica con essa. Anche se – come già detto – la variegata molteplicità delle sette gnostiche ha partorito una altrettanto variegata congerie di miti, nella maggior parte di essi la caduta è connessa a un atto di ribellione originaria, che non è tuttavia compiuto dall’uomo, ma si verifica all’interno del pleroma (in greco “pienezza”). Nella lussureggiante mitologia gnostica, il pleroma è l’insieme armonico e perfetto del dio supremo, radicalmente trascendente, e di una serie di entità divine, o eoni, da esso emanate direttamente, ovvero indirettamente per mezzo di altri eoni (termine che letteralmente significa “epoca” o “evo”, ma che nel contesto della riflessione gnostica indica piuttosto degli stati atemporali di emanazione dal Primo Dio).

Ma si tratta di un’armonia destinata a infrangersi. A un certo momento nel pleroma succede qualcosa, si tratti di un atto di ribellione da parte di uno degli eoni, oppure di una forma di emanazione impura: in ogni caso, da questa frattura nel pleroma si genera un eone corrotto e malvagio, il Demiurgo. Quest’ultimo termine significa letteralmente “colui che lavora per il popolo”, cioè “artigiano”; e all’epoca delle prime sette gnostiche aveva già una plurisecolare tradizione filosofica alle spalle, risalente in ultima istanza a Platone, che in uno dei suoi ultimi dialoghi, il Timeo, aveva ipotizzato l’esistenza di un Demiurgo divino, una sorta di grande artigiano cosmico – il grande architetto o grande orologiaio, come si sarebbero espressi molti filosofi fra Seicento e Settecento, e con loro i Liberi Muratori – che avrebbe plasmato l’universo a partire da una sorta di materia originaria, la chôra (letteralmente “spazio”). Tuttavia, nella concezione gnostica il Demiurgo subisce un radicale capovolgimento assiologico: se quello platonico era un dio buono e sapiente, che nella sua opera di costruzione del cosmo aveva guardato al modello delle idee, paradigmi di razionalità e perfezione; il Demiurgo gnostico è invece un’entità maligna, che produce il mondo materiale quale espressione e quasi effetto collaterale della rottura del pleroma. La creazione gnostica non è dunque la manifestazione, per quanto inevitabilmente imperfetta, di un dio buono e sapiente, bensì il frutto malato di un’entità corrotta. E tale creazione trascina con sé anche l’Uomo primordiale, che dalla sua originaria esistenza pleromatica precipita anch’esso nella cupa e dolorosa prigione costituita dal mondo demiurgico: l’immagine gnostica dell’uomo è quella di una scintilla di luce divina caduta nel fango della materialità, concepita come inesorabilmente malvagia e irredimibile, diversamente dal cristianesimo ortodosso che – non si dimentichi – aveva pur sempre considerato il corpo degno di accogliere la divinità nell’incarnazione del Verbo, e promesso ai fedeli la resurrezione della carne.

Per il fedele gnostico la speranza non è costituita dalla resurrezione della carne – inconcepibile per chi rifiuta il mondo fisico come radicalmente malvagio – bensì dalla possibilità di liberarsi da quel mondo e recuperare la propria perfetta condizione originaria. Ciò è possibile solo grazie alla conoscenza della verità – la gnosi, appunto – trasmessa da una rivelazione divina, mediata da una serie di messaggeri o angeli (ángelos in greco significa proprio “messaggero”) inviati dal dio supremo, il Primo Eone, nel corso del tempo: per gli gnostici cristiani uno di essi – e il più importante – è Gesù. Ma come facevano questi stessi gnostici cristiani a conciliare le proprie concezioni con la narrazione della Genesi, che presenta la creazione come opera di Dio? In effetti, neppure ai cristiani ortodossi è mai sfuggita la differenza fra il dio dell’Antico e quello del Nuovo Testamento: il primo si presenta come geloso, vendicativo, a volte francamente crudele e spesso incomprensibile nel suo agire; il secondo è invece misericordioso, pronto a perdonare l’uomo e a condurlo alla salvezza malgrado tutte le sue manchevolezze. La soluzione tradizionale consiste nell’ammettere un differente atteggiamento dell’unica divinità così come è presentata nelle due parti della scrittura: dopo il peccato originale e fino all’incarnazione abbiamo un Dio giustamente severo verso un’umanità – a cominciare dal popolo ebraico – che ha gravemente mancato nei suoi confronti; dopo la venuta del Messia, il medesimo Dio si manifesta come colui che ha liberamente scelto di sacrificare il proprio unico Figlio per la salvezza di chi crederà in lui. Anche in questo caso, la soluzione degli gnostici – dei cristiani gnostici – è radicalmente diversa. Per loro l’Antico e il Nuovo Testamento non presentano comportamenti differenti dello stesso Dio, bensì due dèi distinti e contrapposti. Il primo è il Demiurgo malvagio, creatore del mondo fisico e dunque responsabile di tutto il male che quel mondo permea; il secondo è il Dio supremo, il Primo Eone che ha inviato i propri angeli per fornire agli uomini con la gnosi una via di scampo dal carcere in cui sono imprigionati. Per alcune sette gnostiche, in particolare gli Ofiti, ciò comportava un’interpretazione originale della figura del serpente che suggerisce a Adamo ed Eva di mangiare il frutto proibito. In effetti, tale figura è presentata nel libro della Genesi come l’avversario per antonomasia di Dio; ma se quel dio è ormai identificato con il malvagio Demiurgo responsabile del male del mondo e della sofferenza umana, allora il suo nemico dovrà essere reinterpretato in chiave positiva. Per gli Ofiti, il cui nome significa proprio “seguaci del serpente”, quest’ultimo altri non è che uno degli angeli mandati dal Dio buono per salvare gli uomini dalla trappola di quello malvagio, proponendo a essi di nutrirsi del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, cioè offrendo loro la gnosi salvifica.

Abbiamo dunque delineato alcuni dei tratti comuni alla sensibilità gnostica; ma – come per tutti i fenomeni storici, compresi quelli attinenti alla storia delle cultura – dobbiamo ancora porci un’ulteriore domanda: quali sono le origini di tale visione del mondo, quali le fonti e influenze che in esse hanno finito per convergere? Si tratta – ancora una volta – di una questione estremamente complessa: le premesse e le cause dell’emergere dello gnosticismo – già di suo molteplice e frastagliato – devono essere ricercate in molte direzioni; tentiamo tuttavia di farlo – semplificando un po’ – indagando in tre ambiti distinti. In primo luogo, una sensibilità per alcuni versi affine a quella gnostica è presente nella civiltà ellenica – e di seguito più in generale in quella occidentale – fin dalle sue origini: potremmo indicarla come il “pessimismo greco”, già individuato all’inizio dell’Ottocento da Arthur Schopenhauer e poi – sia pure con una significativa revisione – da Friedrich Nietzsche alla fine dello stesso secolo. Si tratta di una corrente minoritaria, o comunque a volte poco appariscente e carsica, a confronto con quello che potremmo invece per contrasto definire come l’”ottimismo greco”. In effetti, l’immagine dominante dell’antica civiltà ellenica è quella di un mondo caratterizzato da una certa solarità, in cui gli dèi erano la personificazione dei fenomeni naturali e delle caratteristiche della personalità umana; in cui la vita – in tutti i suoi aspetti, a cominciare da quelli più propriamente legati alla corporeità – era concepita essenzialmente in termini gioiosi e positivi; in cui si coltivavano l’armonia e la bellezza: un mondo, insomma, dominato dallo spirito Apollineo, per utilizzare un’espressione resa famosa da Nietzsche ne La nascita della tragedia. Esiste tuttavia nella civiltà greca anche una tendenza opposta, quella per cui la vita – quantomeno quella fisica e corporea – è invece essenzialmente male. È questo, appunto, il pessimismo greco, ben espresso da un motto che attraversa tutta quella civiltà, secondo cui la cosa migliore per l’uomo sarebbe non essere mai nato, ma, una volta nato, la seconda cosa da desiderare è di morire al più presto. Lo stesso pessimismo che già all’inizio del VI secolo a.C. fa dire a Saffo, in preda agli spasmi dell’amore e della gelosia, non già – come ancora si legge in qualche cattiva traduzione – “vorrei morire”, bensì “vorrei essere morta”, cioè, di fatto, vorrei non essere mai esistita.

Si tratta di un sentire che non riguarda solo la vita umana, ma coinvolge l’intero cosmo. Così suona infatti il più antico frammento testuale pervenutoci dalla filosofia greca, che costituiva probabilmente l’incipit del libro Sulla natura di Anassimandro, vissuto nella generazione immediatamente successiva a quella di Saffo: “Inizio e elemento primordiale di tutte le cose è l’illimitato; e donde viene agli esseri la nascita, là avviene anche la loro dissoluzione secondo necessità; poiché si pagano la pena e l’espiazione dell’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo”. Quasi che per ogni ente il venire all’esistenza altro non fosse che la rottura di una perfetta unità originaria, colpa che si paga poi nel corso dell’esistenza stessa, con tutta la sofferenza e da ultimo la dissoluzione finale che la caratterizza, in un mondo che è in realtà un inferno, in cui ognuno infligge dolore e morte a tutti gli altri. Come si è detto, è stato per primo Schopenhauer a cogliere l’esistenza di questo filone pessimista della civiltà ellenica, e la sua prosecuzione in tutta la successiva cultura occidentale: per esempio, in pieno XVII secolo, più di due millenni dopo Anassimandro, il drammaturgo spagnolo Calderón de la Barca sembra ancora echeggiare il primordiale frammento di quell’antico pensatore, affermando che “Il peggior delitto dell’uomo è quello di essere nato”. E sempre a Schopenhauer – che pure fu fra i primi studiosi e ammiratore delle filosofie e delle religioni dell’India – va ascritto il merito di aver colto il carattere sostanzialmente originario e non derivato dall’Oriente di quel pessimismo greco e occidentale, anche se non sarebbero mancati successivi apporti dal mondo indiano e, soprattutto, iranico.

Uno dei frutti più significativi del pessimismo greco fu l’orfismo, una corrente religiosa sviluppatasi soprattutto nelle colonie elleniche dell’Italia meridionale a partire dal VI secolo a.C. Si tratta di uno dei culti misterici e iniziatici – il più famoso dei quali erano i misteri di Eleusi – che nel mondo greco affiancavano la religiosità olimpica. Non è questo il luogo per entrare nei dettagli dei culti orfici e delle credenze che vi venivano proclamate. Basti qui ricordare che gli orfici credevano nella metempsicosi, cioè nella trasmigrazione delle anime di corpo in corpo in un ciclo di morti e rinascite. È però importante sottolineare che, nell’orfismo come nelle analoghe credenze presenti nella tradizione religiosa dell’India, la metempsicosi – o reincarnazione, come più comunemente e impropriamente si dice – non deve essere intesa come una promessa, come per esempio quella della sopravvivenza dopo la morte propria del cristianesimo, bensì come una minaccia: quella di non riuscire a sfuggire alla ruota delle rinascite – e al suo inevitabile corredo di sofferenza – neppure con la morte. In effetti, secondo la testimonianza di Platone, per gli orfici il corpo era la prigione o – peggio – la tomba dell’anima (in quest’ultimo caso giocando sulla somiglianza fonetica fra sôma = “corpo” e sêma = “segno” e dunque per traslato “tomba” in quanto segno che indica il luogo di una sepoltura). Sempre Platone ci riporta un’altra immagine, ancora più drammaticamente esplicita: come i pirati etruschi, in una terribile forma di tortura, legavano i loro prigionieri a un cadavere in putrefazione; così secondo l’orfismo l’anima è legata al corpo, esso stesso destinato alla corruzione. Scopo dell’uomo sarà dunque quello di liberarsi dal ciclo nelle rinascite, per tornare a una postulata esistenza incorporea originaria e perfetta, nella convinzione che quella sia la vera vita, e non già quella incarnata, che – come suggeriscono le immagini sopra riportate – è in realtà morte: più propriamente, si tratta di liberare l’anima, cioè la parte spirituale dell’uomo, dalla sua prigione e tomba corporea. In realtà, per indicare la componente spirituale della natura umana, sembra che gli orfici utilizzassero il termine daímon, cioè demone, a indicare – come le entità semidivine che gli antichi greci indicavano con tale appellativo – una sorta di scintilla della divinità caduta e imprigionata nella corporeità, che da tale condizione aspira a essere liberata. E per gli orfici la via maestra di questa liberazione è la conoscenza – o meglio la visione – delle verità segrete cui solo agli adepti era concesso partecipare nel corso dei culti misterici: già con l’orfismo, dunque, siamo di fronte all’idea di una conoscenza rivelata, cioè di una gnosi liberatoria.

Pochi decenni dopo la nascita dell’orfismo, le sue convinzioni escatologiche, cioè relative al destino ultramondano dell’essere umano, saranno condivise dalla setta filosofico-religiosa dei pitagorici, anche se una componente della loro gnosi salvifica sarà costituita dalle conoscenze matematiche per cui sarebbero rimasti famosi, viste probabilmente come una forma di purificazione dell’anima, in quanto la matematica comporta forme di ragionamento via via più astratte e slegate dall’esistenza fisica e dall’apparenza empirica degli oggetti. E dai pitagorici la medesima concezione escatologica di fondo arriverà fino a Platone, anche se per lui la conoscenza liberatoria sarà almeno parzialmente estranea alla dimensione propriamente religiosa: non si tratterà più tanto di una gnosi rivelata, quanto della conoscenza derivata da quella particolarissima forma di ascesi (in greco “esercizio”) che è la ricerca filosofica.

La concezione gnostica di un mondo fisico inteso come una prigione dell’anima, che da esso aspira a liberarsi, è dunque già presente nei suoi tratti essenziali in tutta la tradizione filosofico-religiosa greca precedente, che ha nel pensiero di Platone uno dei suoi vertici più significativi. E proprio nel platonismo e nei suoi complessi sviluppi interni dobbiamo ricercare la seconda e più specifica fonte della visione del mondo gnostica. Anche in questo caso, non è certamente possibile delineare, fosse anche solo sommariamente, i complessi contenuti del pensiero di Platone, ma qui interessano solo alcuni aspetti specifici che si cercherà di individuare. La riflessione dell’antico filosofo gravita tutta intorno alla teoria delle idee, secondo la quale la realtà empirica è concepita come mera imitazione imperfetta e transeunte di modelli perfetti ed eterni, appunto le idee. Tale concezione, apparentemente lineare, nasconde invece in sé una sostanziale ambiguità, ovvero – se si preferisce – si regge in equilibrio su un sottile crinale, sempre a rischio di sbilanciarsi verso l’uno o dall’altro versante. In particolare, si pone una domanda, che non trova facilmente risposta: qual è nel pensiero di Platone il valore del mondo fisico, e dunque anche del nostro corpo che a quel mondo appartiene? Nelle sue opere pervenuteci – che, caso unico per i pensatori antichi, rappresenta forse la totalità o quasi di quelle da lui composte – non troviamo alcuna indicazione univoca in merito, anche perché – come noto – sono scritte nella forma del dialogo, in cui il pensiero dell’autore risulta mediato e in parte deformato attraverso le caratteristiche proprie degli interlocutori che egli immagina partecipare alla discussione.

Per esempio, tutt’altro che chiara appare la concezione platonica del rapporto fra anima e corpo, che si configura come un aspetto particolare di quello fra le idee, di cui l’anima è parente stretta, e il mondo empirico, di cui il corpo fa parte. In effetti, a volte, come già si è accennato, il filosofo sembra accogliere la concezione di tradizione orfica, secondo la quale il corpo è prigione e tomba dell’anima; in altri casi, invece, egli lo considera come uno strumento dell’anima stessa, di cui essa si serve per agire sulla realtà esterna. Si tratta di concezioni assai differenti fra loro, e per alcuni versi incompatibili. Nel primo caso, infatti, la dimensione fisica dell’essere umano è puramente e semplicemente un male, da cui l’uomo deve cercare di liberarsi; nell’altro, invece, essa è un aspetto della natura umana, certamente inferiore alla sua componente spirituale, ma non per questo intrinsecamente negativa. In questa seconda prospettiva, Platone paragone la relazione fra anima e corpo a quella che intercorre fra il falegname e i suoi strumenti, che certo sono subordinati all’artigiano stesso, ma senza i quali egli non potrebbe svolgere il proprio lavoro, e proprio per questo non li disprezza affatto e anzi se ne prende cura: d’altra parte, nel suo stesso comportamento personale, Socrate – che come interlocutore principale nella maggior parte dei dialoghi platonici rappresenta perlopiù le posizioni dell’autore, che ne era stato discepolo prediletto – mostrò sempre di avere il massimo rispetto per il proprio corpo, adottando tutti i comportamenti atti a garantirne la salute e l’efficienza.

In generale, la sottile ambiguità del pensiero di Platone si estende alla più ampia questione del rapporto fra mondo delle idee e mondo empirico, la dimensione fisica nella quale ogni essere umano vive e opera. Ponendo la questione in modo semplificato, la domanda che si pone è sostanzialmente la seguente: quel mondo è buono o cattivo? Anche in questo caso, nei dialoghi platonici non è possibile trovare una risposta inequivoca, o, meglio, entrambe le risposte possono essere trovate, a seconda di dove di volta in volta l’autore fa cadere l’accento. L’ambiguità segnalata, può essere espressa nei termini seguenti. Come si è detto, il mondo empirico e tutte le realtà che a esso appartengono sono concepiti da Platone come imitazione dei perfetti modelli ideali. Ora, se si sottolinea il fatto che essi partecipano in quanto imitazioni della perfezione delle idee, ne risulta necessariamente il loro carattere sostanzialmente buono e positivo; ma se, al contrario, si fa pesare l’aspetto per cui sono solamente imitazioni, ne emerge inevitabilmente il loro carattere limitato e imperfetto, se non francamente irrazionale, negativo e in ultima istanza malvagio.

La potenza complessiva della grande intuizione filosofica di Platone e lo stesso eccezionale valore letterario dei suoi dialoghi gli consentirono di rimanere in equilibrio sul crinale della sostanziale ambiguità della sua teoria principale; ma tale equilibrio era destinato inevitabilmente a perdersi nel platonismo dei secoli successivi, soprattutto quando esso dovette confrontarsi con nuove condizioni, ben diverse da quelle in cui era vissuto il maestro, in cui ormai il mondo antico stava iniziando a disgregarsi, sotto i colpi di una crisi al tempo stesso politica, economica, epidemiologica e culturale, entrando così in quella che un grande storico della civiltà ha efficacemente definito come un’epoca di angoscia. In effetti, all’inizio del II secolo d.C., l’impero romano aveva raggiunto la sua massima espansione con le ultime conquiste compiute da Traiano. Da quel momento, i confini non potevano più essere ulteriormente ampliati, non fosse altro che per l’impossibilità tecnica di governare con gli strumenti dell’epoca territori ancora più estesi; e proprio da quel momento, raggiunto il culmine, l’impero iniziò la sua irreversibile crisi. Il II secolo sembrò segnare per qualche tempo il raggiungimento di una condizione finalmente di pace, prosperità e stabilità, ma già nei suoi ultimi decenni i segni della crisi erano evidenti: la fine delle conquiste fece venir meno l’afflusso di manodopera schiavile; le terre coltivabili, prive della forza lavoro necessaria, cominciarono a spopolarsi; nuovi popoli premevano sui confini ormai troppo estesi dell’impero; e con esse arrivarono anche le prime devastanti epidemie. Ma fu nel III secolo che la crisi scoppiò in tutta la sua violenza: nei cinquant’anni della cosiddetta anarchia militare, si susseguirono con un ritmo impressionante imperatori effimeri creati e abbattuti dagli eserciti, e usurpatori che, ribellandosi al governo centrale, assumevano il controllo di alcune regioni staccandole dal corpo dell’impero; mentre popoli provenienti dal mondo germanico, da quello iranico, e dalle steppe dell’Asia centrale – quelli che i romani chiamavano semplicemente “barbari”, cioè genti che parlavano lingue strane e incomprensibili – sfondarono i confini e devastarono gran parte dei territori dell’impero. Di fronte a questo mondo in disfacimento, gli esseri umani – e dunque anche i filosofi e gli intellettuali di ogni genere – potevano reagire in due mondi opposti e solo apparentemente contraddittori: alcuni furono portati a elaborare concezioni metafisiche che rendessero conto della tragedia, raffigurandosi il mondo come essenzialmente malvagio e corrotto; altri, quasi nell’inconsapevole tentativo di esorcizzare quella stessa tragedia, vollero invece immaginarsi che quel mondo, malgrado la sua apparente malvagità, fosse comunque un mondo buono, almeno nel suo principio e nel suo fondamento profondo.

Fu quest’ultima la strada percorsa dal neoplatonismo tardoantico, a cominciare da Plotino, il principale esponente di tale corrente vissuto proprio nel III secolo. Egli si richiama probabilmente alle cosiddette dottrine non scritte di Platone, non riportate nei dialoghi ma insegnate dal maestro nell’Accademia, la scuola da lui fondata ad Atene, di cui noi oggi pochissimo sappiamo, ma su cui Plotino poteva forse avere notizie più ampie e significative; ma rilegge anche alcuni spunti effettivamente presenti dei dialoghi, in particolare un passo della Repubblica di Platone, in cui si ipotizza, al di sopra dello stesso mondo delle idee, la sussistenza di un principio ancora più elevato, “per dignità e potenza superiore all’essere”. A tale principio, che Platone identifica con il Bene e che rappresenta in un certo senso un modello di suprema perfezione per le idee, così come queste ultime sono un modello per la realtà empirica, Plotino, a sottolinearne l’assoluta trascendenza, preferisce non attribuire un nome, che ne depotenzierebbe il valore assoluto limitandolo a un unico aspetto della sua natura: tuttavia, per poterne in qualche modo nominarlo, egli utilizza il termine “Uno”, considerato il meno inadeguato fra gli appellativi utilizzabili, in quanto evoca il suo carattere di fondamento unitario da cui tutta la realtà deriva e cui in qualche modo può essere ricondotta. Dall’Uno, dunque, emana o procede – secondo la caratteristica terminologia neoplatonica – l’essere in tutti i suoi aspetti, da quelli più elevati e immateriali al mondo fisico: un essere, quindi, che per la sua stessa origine dovrebbe essere considerato buono e positivo in tutti i suoi aspetti.

Ma qual è, allora, l’atteggiamento di Plotino di fronte agli aspetti tragici della realtà che lo circonda? Che ne è del male del mondo? E che ne è di quella materia o chôra nella quale il Demiurgo secondo Platone – e anche secondo lo stesso Plotino – aveva plasmato il mondo, e che per l’antico maestro era caratterizzata da irrazionalità e disordine, che inevitabilmente finivano per proiettarsi anche sull’intera realtà fisica? Plotino non era tenero nei confronti della materialità: secondo il suo biografo Porfirio, cui dobbiamo anche la trascrizione delle sue lezioni, egli avrebbe affermato di vergognarsi di avere un corpo. Eppure la sua soluzione del problema del male è potente e radicale: il male si identifica con la materia, ma – ecco il colpo di reni concettuale che consente di trasformare un potenziale pessimismo nel più radicale ottimismo – il male e la materia puramente e semplicemente non esistono. Per Plotino, insomma, tutto ciò che esiste, derivando dall’Uno o Bene, in quanto esiste è buono: il male e la materialità altro non sono che la manifestazione della relativa mancanza di bene e di essere che caratterizza vieppiù gli enti mano a mano che essi, nel processo di emanazione, progressivamente si allontanano dall’Uno. La soluzione metafisica data da Plotino e dal neoplatonismo al problema del male – che pure in quegli anni terribili doveva essergli ben presente – consiste dunque nel depotenziarne radicalmente la consistenza ontologica – cioè, potremmo dire, la quantità di essere in esso contenuto – fino a ridurlo, malgrado tutto, a pura apparenza e, in ultima istanza, al nulla.

Ben diversa è invece la soluzione adottata dallo gnosticismo. Nella riflessione gnostica non è assente l’influenza della tradizione platonica, seppur mescolata con altre fonti di cui presto parleremo, e affogata nel lussureggiare delle sue complesse mitologie, che non a caso proprio Plotino non mancò di rimproverarle. Tuttavia, del platonismo la gnosi accentua il lato pessimistico, risolvendone le ambiguità nella direzione esattamente antitetica rispetto a quella presa dal neoplatonismo. E, anche in questo caso, non mancano i possibili agganci nelle dottrine del maestro. Platone, infatti, aveva individuato nella chôra un principio di disordine e di irrazionalità coeterno tanto al Demiurgo che in essa aveva plasmato il mondo, quanto alle idee alle quali nella sua opera si era ispirato, e in ultima istanza allo stesso Bene; e in qualche dialogo – nonché probabilmente nelle dottrine non scritte – il filosofo aveva fatto balenare l’ipotesi che, allo stesso livello dell’Uno e del Bene, dovesse ipotizzarsi la sussistenza di un secondo principio, quello della Diade indefinita, cioè della molteplicità: si trattava di postulati necessari per spiegare il disordine e, in definitiva, il male del mondo. Utilizzando tali spunti – mescolati ad altri di diversa provenienza – lo gnosticismo capovolgeva la prospettiva del neoplatonismo: mentre quest’ultimo aveva da ultimo negato l’esistenza del male; la gnosi ritiene tale esistenza drammaticamente reale, e intende spiegarla riconoscendogli una forte consistenza ontologica. Il male, anziché essere un alcunché di meramente apparente, è il fondamento metafisico del mondo fisico, frutto corrotto del Demiurgo maligno e impotente, che nella visione del mondo dell’uomo gnostico ha ormai sostituito il Demiurgo buono e intelligente che Platone aveva descritto nel Timeo.

Come si è detto, la gnosi è per molti versi espressione di una diffusa tendenza al sincretismo religioso, favorita inizialmente, a partire dalla fine del IV secolo a.C. dalla progressiva fusione della civiltà greca e di quelle dei diversi popoli che erano stati governati dall’impero persiano e che con le conquista di Alessandro Magno erano entrati a far parte di un’unica koiné (“comunanza”) culturale: tale koiné, che gli storici moderni hanno denominato “ellenismo”, aveva poi trovato una definitiva realizzazione politica con l’impero romano, che a gran parte di essa aveva esteso il proprio dominio. È in tale contesto che trova spazio l’influenza della terza fonte fondamentale cui si ispira lo sviluppo dello gnosticismo. Si tratta dell’antica religione iranica, ispirata all’insegnamento del semileggendario Zarathustra, il cui nome venne ellenizzato dai greci in Zoroastro. A partire dal VI secolo a.C., essa divenne la religione ufficiale dello Stato persiano, prima con la dinastia degli Achemenidi, poi – fra il III secolo a.C. e il III d.C. – con l’impero dei Parti, e infine fino al VII secolo con quello Sasanide, quando quest’ultimo venne travolto dall’invasione islamica che confinò l’antica fede zoroastriana in poche comunità isolate che ancora oggi sopravvivono in Iran e Iraq, nonché presso la popolazione Farsi del nordovest dell’India. Nel mondo antico, in cui prevalevano religioni politeiste, affiancate per molto tempo dall’unico monoteismo ebraico cui si aggiunse più tardi il cristianesimo, lo zoroastrismo rappresentò una notevole eccezione. In effetti, la dottrina di Zarathustra può essere considerata una forma di diteismo, in quanto era incentrata sull’esistenza di due principi superiori: un dio benigno di nome Ahura-Mazda e lo spirito maligno Ahrimane, destinati a confrontarsi e combattersi per l’eternità nel cosmo e all’interno stesso dell’esistenza umana. Nel crogiolo culturale dell’ellenismo, non c’è da stupirsi che tale concezione potesse influenzare e intrecciarsi con altre credenze religiose, accentuando in alcune di esse la tendenza a riconoscere, accanto all’esistenza di un dio buono, anche quella di un fondamento metafisico del male: metafora di tali incontro sono le figure dei Magi che secondo la tradizione sarebbero venuti a omaggiare il neonato Gesù, e che devono essere verosimilmente identificati con sacerdoti zoroastriani. E le influenze della religiosità iranica possono senz’altro essere riconosciute in alcuni aspetti centrali dello gnosticismo, in particolare nella sua concezione fortemente dualista e pessimista, che vede nel creatore del mondo un principio malvagio del tutto diverso dal dio buono in cui il fedele può riporre l’unica speranza attraverso la rivelazione della conoscenza salvifica.

D’altra parte, nell’ambito del mondo iranico, proprio nel III secolo d.C. che vide il fiorire di molti gruppi gnostici, si sviluppò la predicazione del profeta Mani, fondatore della religione che da lui avrebbe preso il nome, appunto il manicheismo. Essa si configura come una sorta di “eresia” dello zoroastrismo, che da un lato ne accentua il carattere dualista e pessimista, riconoscendo anche esplicitamente il carattere sostanzialmente malvagio del mondo fisico, del corpo e della materia che li costituiscono; e dall’altro non è scevra dagli aspetti di sincretismo – per esempio proprio con il cristianesimo – così tipici di quell’epoca: per molti versi deve essere considerato esso stesso una forma di gnosticismo, di cui condivide i nuclei concettuali fondamentali. Malgrado l’uccisione del suo fondatore, il manicheismo ebbe ben presto un grande successo, soprattutto all’interno dei confini dell’impero romano, dove sopravvisse al progressivo eclissarsi delle altre forme di gnosi, e fra IV e V secolo rappresentò un pericoloso concorrente del cristianesimo ormai diventato religione di Stato. La ragione di tale successo deve probabilmente essere ricercata nel fatto che, con il suo riconoscimento di un fondamento ontologico del male di potenza pari – o quasi – a quella del dio benigno e salvatore, sembrava dare una risposta convincente a chi – malgrado la provvisoria stabilizzazione dell’impero nel IV secolo – non poteva non vivere con angoscia l’incipiente disfacimento della civiltà tardoantica: non si dimentichi che proprio nel 410 il mondo dovette assistere alla tragedia fino ad allora inimmaginabile del sacco di Roma da parte dei Visigoti.

Il vescovo di Ippona Agostino individuò il pericolo e dedicò gran parte delle proprie energie intellettuali a combattere quell’avversario. In realtà, egli stesso in gioventù era stato manicheo, e anzi ne aveva approfittato per ottenere una potente raccomandazione da parte di ambienti manichei influenti a Milano – allora capitale dell’impero – per fare carriera e ottenere una cattedra di retorica nella metropoli, sfuggendo così alla marginalità della provincia africana di cui era originario; salvo poi, ottenuto il risultato, abbandonare rapidamente le proprie antiche convinzioni. In ogni caso, a prescindere da qualche motivazione di convenienza, l’iniziale adesione di Agostino al manicheismo non deve stupire: il teologo, infatti, ebbe sempre un senso molto forte del male del mondo e della peccaminosità umana, che peraltro lo conduceva, su un altro versante della propria polemica contro diverse eresie, a combattere le tesi pelagiane – così chiamate perché sostenute dal presbitero Pelagio – secondo cui l’uomo avrebbe potuto salvarsi grazie ai suoi soli meriti; tesi contro le quali Agostino giungeva a considerare l’intera umanità come un’unica massa damnata, incapace di compiere il bene, e che solo dalla grazia divina, elargita in base all’imperscrutabile volontà divina, poteva sperare la salvezza. In effetti, prima della propria definitiva conversione al cristianesimo, Agostino poteva trovare, nel riconoscimento manicheo di un autonomo e potente principio maligno, una teoria pienamente coerente con la propria dolorosa coscienza del male operante nel mondo e nell’uomo. Tale coscienza non lo abbandonò mai, ma poté da lui essere reinterpretata in chiave ortodossamente cristiana da un lato – come si è visto – con la sottolineatura dell’importanza della grazia come unica possibilità di salvezza di un’umanità che – almeno dopo la caduta di Adamo – deve essere considerata sostanzialmente e radicalmente malvagia; e dall’altro recuperando la tesi del neoplatonismo – da lui imparato a conoscere negli ambienti colti milanesi – secondo cui il male, propriamente parlando, non esiste, e altro non è che una mancanza di bene e essere delle realtà ontologicamente inferiori: secondo Agostino, insomma, il male non sta in ciò che esiste – che in quanto tale è, almeno relativamente, sempre bene – ma nell’atto con cui l’uomo decide di scegliere ciò che è meno buono invece di ciò che è migliore, per esempio il piacere fisico a scapito dei valori spirituali.

A partire dal V secolo il manicheismo perse decisamente terreno: se qualche effetto in tal senso poté avere la polemica di Agostino contro di esso, ben maggiore importanza ebbe certamente il deciso intervento a favore del cristianesimo delle autorità imperiali, che si impegnarono anche nella persecuzione di tutte le forme di religiosità eterodossa. D’altra parte, dell’ostilità imperiale nei confronti del manicheismo non ci si deve stupire, dal momento che quest’ultimo, considerando sostanzialmente come male il mondo fisico, rischiava di trascinare in tale giudizio lo stesso potere politico, che nel governo di quel mondo trovava la propria stessa ragion d’essere. Tuttavia, tendenze manichee non scomparvero del tutto. Tracce di esse devono verosimilmente essere riconosciute nella presenza dell’eresia pauliciana nell’Asia Minore della prima età bizantina, non a caso in territori non lontani dal mondo iranico. Non molto sappiamo di tale corrente religiosa, ma essa merita di essere ricordata perché probabilmente rappresentò storicamente il ponte fra il manicheismo e il bogomilismo, una eresia dualista e pessimista che troviamo attiva soprattutto fra X e XI secolo nei Balcani bizantini. Ed è probabile che proprio da lì, attraverso vie difficilmente ricostruibili, tendenze analoghe siano arrivate anche in Europa occidentale, dando origine all’eresia catara, probabilmente la più ampia e strutturata fra quelle che punteggiarono l’intera storia medievale. Il catarismo si affermò soprattutto in Provenza e più in generale nella Francia meridionale, nella pianura padana e nella valle del Reno. La sua diffusione sociale fu variegata, ma probabilmente trova un denominatore comune nei ceti vecchi e nuovi che le trasformazioni sociali e politiche del tardo medioevo tendevano a mettere in fermento: dagli artigiani delle città alla piccola nobiltà. Raramente i catari definirono sé stessi come tali, preferendo perlopiù chiamarsi semplicemente “buoni uomini” e “buoni donne”, che, al di là degli aspetti strettamente dottrinari delle proprie convinzioni religiose, cercavano di mettere concretamente in pratica gli aspetti caritatevoli e solidaristici dell’insegnamento cristiano. Eppure, il termine “cataro” appare come un’importante testimonianza dell’origine in ultima istanza orientale del movimento, e comunque dei suoi rapporti – peraltro storicamente testimoniati – con i bogomili del mondo balcanico-bizantino. In effetti, la parola deriva dal greco, lingua nella quale katharós significa “puro”. E alla purezza della vita cristiana aspiravano appunto i catari, che distinguevano tre distinte categorie di esseri umani: gli ilici (dal greco hýlē = “materia”), estranei alla gnosi salvifica e pienamente calati nella corruzione del mondo fisico; gli psichici (da psyché = anima), cioè i comuni fedeli catari; e infine il piccolo gruppo dei pneumatici (cioè “spirituali”, da pneuma = “spirito”), cioè coloro che hanno raggiunto la perfezione di una vita radicalmente ascetica che rifiuta del tutto ogni forma di commistione con il mondo, dal piacere fisico alla stessa riproduzione – perché mettere al mondo figli costringendone l’anima nella prigione di una realtà corrotta? – fino all’estremo della morte liberamente scelta per inedia e consunzione del corpo. Non è tuttavia da escludersi che nell’origine dell’appellativo “catari” abbiano giocato un ruolo anche le accuse mosse contro di loro dagli avversari. Questi ultimi, infatti, consideravano i “buoni uomini”, in quanto eretici, come seguaci del diavolo, cui spesso era collegato nella fantasia popolare – insieme al caprone e al serpente – anche il gatto. I catari, dunque, erano seguaci del diavolo, dunque seguaci del gatto, ovvero – per farla breve – gatti essi stessi. E in Renania “gatti” si doveva dire con un termine non molto diverso da quello dell’odierno tedesco, cioè katzen. Secondo alcuni studiosi, giocando su una certa assonanza, i catari avrebbero allora capovolto l’accusa mossa loro dagli avversari; un po’ come se intendessero dire: “Voi affermate che siamo come dei gatti seguaci del demonio (katzen)? Noi invece rivendichiamo di essere spiritualmente puri (katharoí)”. In ogni caso, il legame del catarismo con l’Europa orientale è testimoniato anche dal fatto che spesso le comunità catare erano definite come “chiese bulgare”, e ancora oggi in francese il termine bougre (possibile corruzione di “bulgaro”) significa qualcosa come ”tipaccio”, perché ovviamente gli eretici non potevano che essere cattive persone.

L’eresia catara fu combattuta dall’Inquisizione, che anzi fu inventata dalla chiesa cattolica proprio a tale scopo, a partire dall’inizio del XIII secolo: in questo essa fu potentemente fiancheggiata dalla monarchia francese, che vide nella cosiddetta crociata contro dagli albigesi (da Albi, uno dei principali centri di diffusione del catarismo) un buon pretesto per estendere il proprio dominio nel sud provenzale e occitano che allora non rientravano ancora nei suoi confini. L’impresa di estirpazione dell’eresia riuscì solo al prezzo di indicibili massacri e devastazioni, e non da ultimo nell’annientamento pressoché totale della raffinata cultura che in quei territori era fiorita nei secoli immediatamente precedenti: gli ultimi catari furono condannati al rogo all’inizio del Trecento. Eppure, lo spirito del catarismo non si estinse del tutto. Secondo alcuni studiosi, il fatto che nel Cinquecento le regioni meridionali della Francia abbiano costituito uno dei principali centri di diffusione del calvinismo testimonierebbe di una mai sopita ostilità nei confronti tanto del potere centrale della monarchia quanto della chiesa cattolica sua alleata; e le zone dei Balcani in cui è ancor oggi presente o dominante la fede islamica corrispondono largamente a quelle in cui era diffuso il bogomilismo, forse a testimonianza del fatto che, al momento dell’invasione turca, gli ultimi esponenti di quell’eresia, dopo secoli di persecuzioni subite da parte del cristianesimo ortodosso, trovarono più naturale avvicinarsi e da ultimo fondersi con i relativamente tolleranti invasori musulmani.

E oggi? Un interessante paragone è stato istituito da qualcuno fra lo gnosticismo e il cosiddetto complottismo. Questi due fenomeni, così lontani e per altri versi così diversi, hanno infatti in comune la tendenza a ridurre la complessità – e soprattutto quella degli innumerevoli aspetti negativi del mondo in cui viviamo – a un unico principio. Si tratterebbe, insomma, in entrambi i casi, del tentativo di semplificare la realtà, sfuggendo alla fatica di doverne indagare e analizzare i molteplici intrecci; ma anche di un fin troppo facile modo di sfuggire alle responsabilità, si tratti di attribuire la causa del peccato all’influenza irresistibile di un dio maligno, oppure quella di tutte le difficoltà che affliggono il mondo contemporaneo a un complotto dei poteri forti.