Marilde Bordone
Insegnante di Storia dell’Arte
Nei testi e nei manuali scolastici di Storia dell’arte le donne sono quasi sempre state le grandi assenti; per molto tempo, e a mala pena, ne sono stati segnalati i nomi, senza concedere loro uno spazio di approfondimento per quel che concerne i caratteri, le opere, lo stile.
Solo negli ultimi decenni si è cominciato a far luce su alcune personalità di altissimo profilo. Per secoli sono rimaste “presenze invisibili”, rinchiuse fra le mura di casa o di un convento, dedite a quelle che venivano considerate “arti minori” come la miniatura, la tessitura o il ricamo.
Nel Medioevo veniva loro proibito di intraprendere ogni tipo di apprendistato presso le botteghe d’arte, considerate luoghi pericolosi per le donne. Si possono citare rarissime eccezioni: Marietta, figlia del grande Jacopo Robusti detto il Tintoretto, veniva accompagnata dal padre in quegli ambienti prudentemente vestita in abiti maschili.
Il grande biografo Giorgio Vasari in una pagina delle “Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori” scrive: “Gran cosa è che in tutte quelle virtù e in tutti quegli esercizi né quali, in qualunque tempo hanno voluto le donne intromettersi… siano sempre riuscite eccellentissime… come una infinità di esempi agevolmente può dimostrarsi a chi non lo credesse”. A tal proposito cita la scultrice bolognese Properzia de’ Rossi (1490-1530) che viene ricordata per la sua abilità nell’intagliare minuscole scene complesse su noccioli di ciliegia, definendola “di capriccioso e destrissimo impegno”. Tale artista inoltre ha avuto lo straordinario onore di eseguire per il duomo di San Petronio due pannelli in marmo con scene testamentarie. La scultura soprattutto era considerata arte non idonea al delicato genere femminile.
Proprio a Bologna, prima di Properzia, un’altra figura si era distinta nel mondo dell’arte: Caterina dé Vigri (1413-1463). Educata alla Corte di Ferrara, centro di cultura umanistica, alla morte del padre si ritira in convento; poco si conosce della sua produzione artistica ma è documentata la sua prosa in latino. Caterina incarna due modelli femminili: quello medioevale di badessa colta e quello della donna di Corte rinascimentale che si occupa di arte, letteratura e musica.
Solo nella seconda metà de Cinquecento però, col pieno dominio del Manierismo, si comincia a parlare di commissioni pubbliche assegnate alle donne.
Lavinia Fontana (1552-1614), bolognese, figlia di Prospero inizia la sua carriera nelle chiese locali di San Giacomo e San Michele in Bosco. È l’unica a quei tempi a ottenere una commissione, a stabilire un prezzo per i suoi quadri (i contratti li firmava il marito poiché fino a quel momento le pittrici venivano ricompensate con doni). Al marito, anche lui pittore, pose inoltre come condizione per le nozze di poter rivendicare il suo ruolo di artista continuando a dipingere. Alla Galleria degli Uffizi è esposto un suo dipinto “Noli me tangere” in cui la protagonista dell’incontro con Gesù è una donna, contrariamente a quanto avviene nello stesso tema trattato da artisti come Correggio o Andrea del Sarto.
Lavinia rielabora lo stile del padre, di impronta bolognese con suggestioni del centro Italia, arricchendolo con intenti naturalistici e raffinatezze di derivazione fiamminga, che si evidenziano soprattutto nel repertorio di ritratti, genere nel quale si specializza. Nella ritrattistica prende a modello Sofonisba Anguissola (1532-1625) soprattutto nello studio dei dettagli: trame dei tessuti, ricami, gioielli.
I loro dipinti rimandano alla stessa emotività. Sono entrambe pittrici di anime, in grado di rilevare nella postura delle mani, in un cenno di movimento improvviso, nell’intensità di uno sguardo la fragile transitorietà della dimensione umana.
Sofonisba fu chiamata così dal padre Amilcare a ricordo della figlia del cartaginese Asdrubale, suicida per non cadere nelle mani dei romani. Ebbe il permesso del genitore, assai raro per quei tempi, di studiare pittura sotto la guida di Bernardino Campi che lavorava a Cremona, città natale della giovane.
Vive i suoi novanta e più anni al confine fra le luci del Rinascimento e la linea d’ombra inquietante del Seicento. Nei ritratti le sue intuizioni psicologiche, di impronta leonardesca, la portano a dipingere personaggi in cui fisionomia e stati d’animo si intrecciano. Ricevette lodi dal Vasari che la definì “virtuosa” e da Michelangelo che vide un suo disegno del “fanciullo morso da un granchio”, che per realismo e spontaneità fu forse fonte d’ ispirazione per un olio di Caravaggio.
Famosi i suoi due autoritratti esposti agli Uffizi e al Museo di Storia dell’Arte di Vienna. In quest’ultimo si raffigura compunta, senza accenno di sorriso, ma gli occhi esprimono la consapevolezza del suo ruolo di artista. Anche la presenza di un cavalletto sullo sfondo in un altro autoritratto ribadisce tale convinzione.
Sofonisba acquista grande fama di ritrattista in Spagna dove dimora dal 1559 al 1580. Anton Van Dyck, allievo di Rubens, l’ammirava molto. Ormai novantenne e quasi cieca posò per lui e gli diede preziosi avvertimenti. Molte delle sue opere andarono disperse dopo la morte.
Ma la personalità che più incarna la modernità, la liberazione della donna dal fardello paterno e l’uscita dall’oscurantismo dei pregiudizi maschili e sociali è sicuramente quella di Artemisia Gentileschi, figlia di Orazio Lomi (detto Gentileschi), prima donna a entrare all’ Accademia del Disegno fondata a Firenze nel 1562. La sua vita è solcata da un episodio di stupro da parte di Agostino Tassi, pittore e amico del padre oltre che suo maestro. Tassi è un bell’uomo di trent’anni, sposato, stimato paesaggista e la ragazzina, che fa un mestiere riservato agli uomini, orgogliosa e coraggiosa lo denuncia contro la volontà del padre stesso. Il processo si trascina per mesi con prove, controprove e verifiche umilianti. Tassi viene condannato ma Artemisia deve abbandonare Roma.
La tela da lei dipinta nel 1612-13 “Giuditta che decapita Oloferne” nella sua drammaticità e rabbiosa violenza, esaltata dal luminismo caravaggesco, esprime tutto il dolore subito. La testa di Oloferne è quella del Tassi.
A processo concluso il padre le combina il matrimonio con Pierantonio Stiattesi, modesto artista fiorentino, che le restituisce l’onorabilità perduta agli occhi del mondo. A Firenze Artemisia vende le sue opere e il marito è ben felice del denaro che guadagna.
Artemisia si affranca totalmente dalla tutela paterna e firma i suoi quadri col nome della madre; afferma la propria indipendenza scegliendo di separarsi dal marito nonostante i quattro figli avuti da lui. Rivendica il suo diritto a identificarsi con l’arte nella tela “Autoritratto come allegoria della pittura”, in cui si rappresenta nell’atto di dipingere. Ha al collo un ciondolo a forma di maschera che simboleggia l’imitazione del vero, la sciarpa cangiante sul braccio a indicare la perizia tecnica e un ciuffo ribelle sulla fronte a segnalare il febbrile fervore d’artista.
Altra figura rimarchevole è quella di Fede Galizia (1578-1630), anche lei figlia d’arte, che come Sofonisba ambisce al prestigio sociale. A soli diciotto anni dipinge il ritratto di Paolo Morigia caratterizzato dal particolare del riflesso della stanza negli occhiali del personaggio raffigurato. Dal 1602 si interessa alla natura morta come dimostra un suo dipinto “Alzata con frutti e una rosa”, in cui il colore rosso della pera scolorisce nel rosa sfumato di bianco di un fiore che sta sfiorendo, a indicare la bellezza che lentamente svanisce. Rivela la verità interiore della cosa rappresentata, facendo un uso poetico dell’oggetto-stato d’animo. Muore di peste nel 1630.
In ambito bolognese spicca anche la personalità di Elisabetta Sirani, figlia del pittore Giovanni Andrea, allievo e collaboratore di Guido Reni. Elisabetta, nata nel 1638, si forma nella bottega del padre dal quale apprende i principi teorici e pratici dell’arte. Poiché donna, viene esclusa dalle lezioni di disegno dal vero, ma ciò non le impedisce di portare avanti studi anatomici attraverso statue e dipinti presenti nella galleria del padre che era mercante d’arte e agente della famiglia Medici. Fra le sue prime opere la pala d’altare della “Vergine con Bambino e Santi” per la chiesa di S. Martino a Trasasso e un “S. Antonio da Padova con Gesù bambino”, opera di piccole dimensioni per la devozione privata.
Il suo talento si manifesta nel 1658 nella grande tela (4×5 m) col “Battesimo di Cristo” per la chiesa di S. Domenico della Certosa. Con “Autoritratto come allegoria della musica” e “Giuditta con la testa di Oloferne” si attira l’attenzione dell’élite bolognese e comincia a dipingere per nobili e mercanti, per i principi della famiglia Medici e per il re di Polonia. Si orienta sulla figura femminile, esaltandone il ruolo eroico, nella pittura storica: “Timoclea che uccide il capitano di Alessandro Magno” e “Cleopatra”. Nel 1660 divenne professore della Accademia di S. Luca a Roma e nel 1662 fu la prima donna in Europa a dirigere una scuola femminile di pittura. Delicatissima appare nei toni ambrati la sua trasognata “Maddalena penitente” e molto originale è l’impostazione del suo “Autoritratto mentre dipinge il padre”, quasi a volerne sfidare il ruolo di artista nel confronto diretto.
Fu una delle artiste donne più stimate e apprezzate per il suo stile veloce, caratterizzato da pennellate ampie e da un forte senso del colore e del chiaroscuro. Nel 1664 Cosimo III de Medici si recò in visita nella sua bottega per verificarne il talento. Poco dopo esegue per lui l’opera “Giustizia, Carità e Prudenza”, ricevendo come ricompensa una croce di diamanti. La morte la colpisce prematuramente a soli ventisette anni mentre era all’opera per Vittoria della Rovere, granduchessa di Toscana e per l’imperatrice Eleonora Gonzaga.
Importante fu il suo apporto alla società moderna poiché, con l’apertura della sua bottega, offrì a molte giovani allieve la possibilità di intraprendere la carriera di artista, per lo più preclusa alle donne.
Altra personalità di rilievo in ambiente piemontese è Orsola Maddalena Caccia, figlia del pittore Guglielmo Caccia, detto il Moncalvo. Di Orsola si conosce solo l’atto di morte del 26 luglio 1676 che la indica come ottantenne. I suoi primi interventi pittorici si intravedono nei dipinti del padre verso il 1615. Intorno al 1620 entra nel convento delle Orsoline a Bianzé e nel 1625 si trasferisce nel nuovo convento di Moncalvo, di cui il padre era finanziatore. Quest’ultimo alla sua morte lasciò in usufrutto alle figlie Orsola e Francesca piccoli quadri e disegni come materiale utile alla attività pittorica di entrambe. Di fatto Orsola ripete con sensibilità tutta femminile i temi paterni in dipinti devozionali e in pale d’altare destinate a numerose chiese, non solo piemontesi. La sua pittura riscuote un certo successo presso la corte Sabauda.
Come pittrice non ebbe molta fortuna postuma e solo nel 1964 l’identificazione di alcune vivaci nature morte da lei dipinte (tre delle quali nel Municipio di Moncalvo) ha rinnovato l’interesse degli studiosi per il suo operato.
Rispetto alle prime opere come l’”Immacolata” della parrocchiale di Rosazza e la “Madonna col Bambino” della parrocchiale di Bianzé, in cui è evidente il richiamo diligente alla produzione paterna, nella sua produzione più matura emerge la tendenza a virare la gamma cromatica verso toni freddi e azzurrini. Nelle opere successive la personalità di Orsola diviene sempre più indipendente e i suoi dipinti superano il centinaio, disseminati in diverse località piemontesi: Biella, Casale Monferrato, Castellazzo Bormida, Chieri, Moncalvo. A Torino alla Galleria Sabauda è esposta la sua tela raffigurante S. Lucia.
Quelle elencate sono le personalità più rilevanti del periodo che abbraccia il XVI e il XVII secolo. Ma se ne possono aggiungere altre.
La riscoperta di queste singolari personalità sembra essere lo scopo della mostra “Le signore dell’arte. Storie di donne tra ‘500 e ‘600” che aprirà i battenti in marzo (dopo lunghe forzate chiusure) al Palazzo Reale di Milano.