La peste
Paolo Bertinetti
Già preside della Facoltà di Lingue dell’Università di Torino
William Shakespeare incominciò a scrivere Romeo e Giulietta prudentemente chiuso in casa. Fuori imperversava la peste e i teatri, come sempre si faceva a Londra durante le epidemie, erano chiusi. Gli assembramenti, chiara causa di contagio, erano assolutamente da evitare (anche se il Cardinal Borromeo non lo sapeva e con la processione organizzata per chiedere l’intercessione divina collaborò drammaticamente alla diffusione dell’epidemia in quel di Milano nel 1630). Quell’anno, a Londra, la peste passò abbastanza rapidamente e con meno danni di altre volte, “soltanto” 15.000 morti. Non fu letale come era stata quella del 1563, che a Londra fece 30.000 morti, circa un sesto della popolazione, e che nella primavera successiva, quando arrivò a Stratford, la cittadina in cui proprio in quell’anno Shakespeare era nato, portò alla tomba quasi un terzo dei suoi abitanti. Cure e medicine non ce n’erano: l’unica misura era quella di stare chiusi in casa; e sperare in Dio (senza fare processioni).
Per decenni Londra e l’Inghilterra furono colpiti dalla peste. Tremenda fu quella del 1603, quando i morti furono 36.000, più di un sesto della popolazione. E un’altra seguì, nel 1606, un’altra ancora nel 1608-09. Ma forse la più micidiale, almeno tra quelle di cui disponiamo maggiori dati, fu quella del 1665 e 1666, che all’epoca molti attribuirono a una sorta di punizione divina dovuta al fatto che era stata restaurata la monarchia e che Sua Maestà era amico dei cattolici (per la verità che la peste, o qualche altra epidemia, fosse un flagello di Dio, qualcuno lo diceva sempre; e nel recente passato qualcuno l’ha detto a proposito dell’AIDS).
Il resoconto più straordinario della micidiale pestilenza del 1665 è il Diario dell’anno della peste di Daniel Defoe, che all’epoca aveva soltanto cinque anni e che quindi diede forma romanzesca (seppure sulla base della documentazione esistente) alle vicende di quell’annus horribilis. Un finto diario, insomma, attribuito a un personaggio di fantasia che raccontava in prima persona la sua esperienza personale all’interno della tragedia che aveva colpito la città.
C’è tuttavia un vero diario che racconta la peste del 1665, quello di Samuel Pepys, un importante funzionario dell’amministrazione inglese. Pepys, figlio di un sarto, era nato a Londra nel 1633 e aveva frequentato l’università a Cambridge, dove si era laureato nel 1654. Aveva incominciato a scrivere il suo diario il 1° gennaio 1660, pochi mesi prima di accompagnare suo cugino nei Paesi Bassi, in una missione che aveva lo scopo di organizzare il ritorno in Inghilterra, e sul trono, di Carlo II. Immediatamente fu compensato con un buon posto presso il Navy Board, quello che possiamo considerare il Ministero della Marina, ottenendo il primo dei posti ben remunerati che ricoprì nel corso degli anni.
Il suo diario è ricco di pettegolezzi sull’ambiente di corte e altrettanto ricco di annotazioni sul proprio carattere e sulle proprie abitudini. Non si nasconde dietro la facciata del bravo funzionario e del bravo marito: “la cosa più importante per me è il mio piacere personale, non posso rinunciare al vino e alle donne”. Verissimo: ha, ad esempio, un’avventura extra-coniugale poco prima dello scoppio della peste, si mostra pentito, ma poi, subito dopo, ricomincia a cercare “il piacere personale”.
Una cosa che lo preoccupa, adesso che è chiaro che l’epidemia si è scatenata, è il fatto di avere comprato da poco una bella parrucca con cui esibirsi nelle occasioni mondane: e se i capelli con cui è fatta, si chiede, fossero di persone che avevano la peste? Le notizie sull’epidemia sono però quasi nascoste nel resoconto dei suoi impegni di lavoro, delle sue cene, dei suoi incontri mondani. Il 7 giugno nota con una qualche preoccupazione di avere visto sul portone di tre case una grande croce rossa con su scritto “Dio, abbi pietà di noi!”. Il 29 giugno annota che il re e la corte stanno facendo i preparativi per andarsene da Londra e rifugiarsi lontano dal cuore del contagio. Il 31 luglio registra il fatto che gli affari vanno bene, anche se la situazione è piuttosto problematica, dato che nell’ultima settimana ci sono stati 1800 morti. Oculato amministratore, sistema una serie di pratiche in corso, ma senza precipitazione; per prudenza fa testamento, ma continua a trattare con ironia gli impegni mondani della moglie; e per coerenza con il suo essere dedito al “piacere personale” non si sottrae all’apprezzamento delle donne e del buon cibo.
Annota con distacco la malattia o la morte di conoscenti e parenti (tra cui il suocero), ma non si lascia turbare più di tanto dal rischio di contrarre anche lui la peste. Né si commuove per la scomparsa delle molte persone che da un giorno all’altro non vede più, pur riflettendo sul fatto che spesso gli accade di dover notare che il tale, o il tal altro, sono ancora in giro, che la peste non li ancora portati via. Pepys era un uomo concreto. Il commento finale, quando la peste finì, fu di soddisfazione: ma più ancora che per la fine dell’epidemia, per il fatto che grazie agli affari conclusi nel periodo aveva triplicato il suo conto in banca. Come, ci si augura presto, potrà dire la Pfizer.
Di tutt’altro tono è il libro di quel formidabile giornalista di Daniel Defoe, che tre anni dopo aver pubblicato Robinson Crusoe diede alle stampe un libro intitolato Diario dell’anno della peste. Defoe fingeva di essere l’editor (come Manzoni per i Promessi sposi) del diario di un certo H. F., londinese, di mestiere sellaio, che era sopravvissuto alla peste del 1665. Il lunghissimo sottotitolo spiega che si tratta di un diario “contenente osservazioni o testimonianze sugli avvenimenti più notevoli, pubblici e privati, che accaddero a Londra durante l’ultima grande apparizione della peste nel 1665” (la parola dell’originale inglese, qui resa con “apparizione”, suggerisce l’idea di una manifestazione di carattere sovrannaturale, come potrebbe essere una punizione divina). Nell’arco di quei pochi mesi ufficialmente ci furono 70.000 morti, ma H. F. sostiene che furono 100.000. Sarebbe come se a Torino morissero per Covid-19 più di 200.000 persone.
Il libro di Defoe è, in fondo, un romanzo storico: ci sono pagine e pagine che riportano i dati dei bollettini parrocchiali che registravano i decessi, ci sono i decreti emanati dalle autorità cittadine (non da quelle “statali”: il re e la corte, di cui Pepys aveva registrato i preparativi di fuga, si erano rifugiati a Oxford), ci sono notizie tratte dai diari di Pepys e di un altro illustre letterato, John Evelyn, c’è insomma il dato storico recuperato dal giornalista Defoe. E poi c’è l’invenzione narrativa dovuta al romanziere Defoe, che a partire da quelle testimonianze creava l’effetto di un “vero” resoconto, di una cronaca “veritiera” di quella terribile pestilenza.
Le somiglianze con il presente sono, diciamo così, istruttive. Troviamo, innanzitutto, l’elogio dei medici, che “concorsero al salvataggio della vita di molti” londinesi, rischiando “a tal punto la vita da perderla al servizio dell’umanità”. Alcuni medici, pochi, (come da noi successe nella primavera scorsa) “abbandonarono i pazienti all’epidemia” fuggendo fuori Londra; ma quando tornarono in città vennero giustamente chiamati disertori.
Nel Diario troviamo, soprattutto, la descrizione delle successive fasi del contagio. All’inizio ci fu l’esodo di molti dalla City: esodo autorizzato, in quanto il Sindaco diede un certificato di buona salute ai richiedenti che sembravano esserlo. Alcuni lo sembravano soltanto; e portarono il contagio fuori città. Poi si fece strada, volontariamente, l’abitudine a non uscire di casa la sera, ma questo non poteva certo bastare. Infine, con l’esplosione dei casi di peste, le autorità della City decretarono che i malati e i parenti dei malati restassero chiusi in casa. C’era un precedente. In occasione della peste del 1603 il Parlamento aveva deliberato, ricorda Defoe, “di chiudere la gente in casa”. E così si fece nel 1665. Boris Johnson, non sapendolo, per una decina di giorni, in nome delle tradizioni inglesi, straparlò sulla libertà di circolazione e di raduno nei pub, nei ristoranti, nei cinema e nei teatri. Come si diceva prima, già ai tempi di Shakespeare, per evitare il contagio, i teatri venivano chiusi. Ma Boris non lo sapeva. Poi, forse grazie anche alla sua esperienza personale, ha pensato bene di dare ascolto ai medici e agli scienziati che, pur non essendosi laureati in Storia come lui, quei lontani fatti storici li ricordavano. E che gli dicevano come bisognava procedere per contenere prima e per sconfiggere poi il contagio.
Ma torniamo al Diario di Defoe e a quel micidiale imperversare della peste. La chiusura in casa dei malati e dei loro familiari era vista con angoscia. “All’inizio della moria” le autorità cittadine misero dei guardiani davanti alle porta delle case “infette”, ma spesso alcuni dei guardiani venivano corrotti, altri malmenati: e così i parenti degli appestati potevano uscirsene di casa e scappare fuori città. Molti di loro non sapevano di essere malati e trasmisero il morbo ovunque si rifugiarono. Poi, in poco tempo “ogni commercio, eccetto quello riguardante i mezzi di sussistenza, subì un arresto totale”; in ogni caso all’estero non volevano saperne di merci inglesi e le navi dirette a Livorno e Napoli, ad esempio, vennero mandate in Turchia.
Le pagine più angosciate non sono però quelle dedicate ai commerci, ma quelle dedicate alla condizione dei poveri; “non avevano infatti né cibo, né medicine, né medico, né farmacista che si occupasse di loro, né infermiera che li assistesse”. E tuttavia un moto caritatevole ci fu: per aiutarli furono raccolte somme ingenti grazie alle offerte dei mercanti più timorati di Dio. Il morbo, però, non trovava ostacoli. Tucidide racconta che durante la peste del 430 A. C. i medici ateniesi erano disarmati di fronte a una malattia a loro sconosciuta. Quelli londinesi ne sapevano di più – e la raccomandazione, insieme a quella di restare in casa, era di lavarsi bene le mani. Ma non molto di più.
C’è però un punto del Diario che particolarmente colpisce. Quando, superato il picco, il numero dei morti discese fortemente, “la popolazione divenne così temeraria che considerò il morbo nulla più che una comune febbre”. Molti cominciarono ad andare in giro dappertutto e il contagio di nuovo riprese con forza. Abbassare la guardia, insegnamento del tutto ignorato dai nostrani politici populisti e da illustri epidemiologi al loro servizio, fu una cosa disastrosa. Se Dio vuole (e per Defoe è proprio la Divina Provvidenza che lo vuole) finalmente la peste sparì. Ma ancor prima erano spariti i santoni e i ciarlatani vari che offrivano rimedi inesistenti e ritenevano inutili le raccomandazioni dei medici. Da noi, per lungo tempo, santoni e ciarlatani vari hanno continuato a imperversare. E alcuni di loro ancora non hanno smesso di propagandare le loro imbecilli credenze.
Quella che segue è una parte dell’intervista su “Albert Camus e La peste” che la professoressa Pierangela Adinolfi, del Dipartimento di Lingue dell’Università di Torino, ha rilasciato a UniToNews
Di cosa parla il capolavoro di Camus? E perché è tornato prepotentemente alla ribalta?
Il capolavoro di Camus, La peste, racconta il dilagare di un’epidemia di peste che si manifesta in un tempo non precisato degli anni Quaranta del secolo scorso, in una città dell’Algeria, Orano.
In effetti, a partire dal mese di marzo (del 2020) il libro non solo è tornato alla ribalta, se così si può dire, ma ha avuto una vera e propria impennata delle vendite in Italia e all’estero.
Il primo motivo di questo rinnovato interesse discende dalla trama e dalla struttura del testo, costruito per creare la rappresentazione di uno stato di allarme che si dispiega in tutte le sue fasi, a partire dalla sottovalutazione e dall’incredulità iniziali fino ad arrivare, attraverso la serrata analisi psicologica dei personaggi che ripropongono la vasta gamma di emozioni, sentimenti e passioni dell’essere umano, alla constatazione di una possibile via d’uscita. Tutte le dinamiche interpersonali, affettive, politiche, economiche, che si verificano nella situazione di epidemia e quarantena sono messe in campo. Camus parla dell’esilio, che in questo caso è la separazione dagli affetti, la privazione della libertà, parla della paura della morte e dell’impotenza umana di fronte alle catastrofi naturali. Parla anche del coraggio, della consapevolezza, cui si perviene soltanto con il dubbio circa le verità acquisite, della giustizia, della risposta individuale di fronte a un male collettivo e della speranza, una speranza che può riportare ad “essere felici insieme agli altri”. Tutti gli aspetti presi in esame sono considerati dal punto di vista prettamente umano e questa è una peculiarità di Camus.
Il secondo motivo pone le sue radici nello spessore filosofico-esistenziale del testo. Il morbo della peste, come è noto, è la rappresentazione simbolica del Male. Pubblicato nel 1947, a ridosso della fine della seconda guerra mondiale, il romanzo di Camus mette in scena la peste quale metafora del nazional-socialismo appena sconfitto, ma anche in quanto emblema di ogni tipo di male che in ogni epoca storica è in grado di minacciare l’umanità. Il problema del Male, che assume anche tratti metafisici, è il grande problema di fondo che caratterizza lo scenario de La peste. In risposta alla consapevolezza dell’esistenza del male, Camus crea il docteur Rieux, il personaggio adatto a veicolare la forza del suo pensiero. Rieux è colui che sa opporsi, attraverso la razionalità della scienza e la tenacia della scelta individuale, all’assurdità del male. Per mezzo del confronto di Rieux con gli altri personaggi, Camus, accanto al problema del Male, affronta il problema della morte, della sofferenza inutile degli innocenti, della religione cristiana e di Dio. Camus sottolinea con forza la necessità del dialogo permanente tra atei e cristiani. Il cristiano chiama “Dio” ciò che non capisce, mentre l’ateo lo definisce “Assurdo”. Entrambi, però, condividono la stessa tragica condizione di vita terrena, entrambi sono sottoposti al Male. È, pertanto, nella prospettiva della lotta contro il Male, della Rivolta, che tutti i “fratelli” umani si devono stringere sotto il segno della Solidarietà. La Caritas cristiana si tramuta in solidarietà umana e Rieux, grazie alle parole dell’amico Tarrou, assume i caratteri del “santo laico”, del “tipo” d’uomo capace di combattere, all’interno della rivolta collettiva, il male e l’assurdo.
Il terzo motivo concerne più da vicino la percezione del lettore che oggi rilegge La peste. Della facilità con la quale si riesce oggi a immedesimarsi negli avvenimenti descritti ne La peste, si è detto prima; con la differenza che la situazione letteraria è molto più circoscritta, poiché interessa una sola città, mentre la nostra condizione ricopre ormai una dimensione estesa a livello mondiale. Ciò che secondo me risulta maggiormente interessante trattenere dalla lettura de La peste è proprio l’impianto filosofico – esistenziale, traboccante di significato, sotteso al romanzo. Ciò che Camus ha trasmesso con la sua narrazione.
Anche prima di oggi, La peste custodiva il suo alto contenuto di senso, quindi non è l’attualità che dà valore al libro, bensì il contrario. Si dovrebbe, pertanto, ribaltare la prospettiva: non sono i libri a essere attuali, ma sono gli eventi storici, fausti e infausti, che si ripetono ed è dai libri che possiamo ricavare una lezione di senso, quel senso che secondo La peste è collocato nella solidarietà e nella lotta umana contro l’assurdo.
Cosa ci insegna La peste di Camus alla luce di quello che stiamo vivendo?
La peste di Camus ci insegna sicuramente a non essere complici del male, a recuperare, quindi, dei valori nei momenti di maggiore criticità, a non considerarsi per sempre al sicuro, perché, come scrive Camus nell’epilogo del suo libro, il morbo della peste può celarsi per un tempo a noi sconosciuto per poi risvegliare i suoi ratti e mandarli a morire in una città felice. Può quindi tornare e diffondersi ovunque. Ciò vuol dire che nessuno si può salvare senza la solidarietà dell’altro (pensiamo anche alla situazione europea, ma non solo, che richiederebbe la solidarietà fra gli Stati membri). È ancora possibile essere felici, ma ciò ha senso soltanto se si può essere “felici insieme agli altri “.