Roberto Alonge
Già professore di Storia del Teatro e
Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Torino
Curioso destino, quello di Luigi Pirandello, massimo drammaturgo mondiale del Novecento, contemporaneamente esecrato e idolatrato per ragioni fittizie e tutte filosofiche. Da un lato il rifiuto netto da parte della cultura accademica, a lungo egemonizzata da Benedetto Croce, il quale, da buon filosofo, giudicava paccottiglia para-filosofica gli spunti riflessivi dell’opera pirandelliana, che veniva pertanto respinta in blocco, condannata proprio per quell’imperdonabile peccato originale. E dall’altro lato, la tenaglia che si chiude con il filosofo anti-crociano Adriano Tilgher, il quale, a partire dal 1922, fa pernio proprio sugli gli elementi filosofici interni all’opus pirandelliano per offrirne una completa rivalutazione, che finisce peraltro per imprigionare lo stesso Pirandello, in diversi dei suoi ultimi copioni sicuramente vittima del pirandellismo, l’insieme di quegli insopportabili apriscatole critici per fortuna oggi quasi totalmente scomparsi (la Vita e la Forma, la maschera il volto, il relativismo, uno nessuno centomila ecc. ecc.).
In ogni caso, a liberare Pirandello da questa assurda morsa filosofica ci ha pensato la critica d’ispirazione marxista che, dagli anni Settanta del Novecento, ha puntato a ricuperare l’immagine di un Pirandello coscienza della crisi, autore borghese ma critico della società borghese, giocato in contrapposizione ai facitori di miti distorcenti e regressivi (in primis D’Annunzio, ovviamente). Il pessimismo fecondo di Pirandello di contro all’ottimismo mistificatorio di D’Annunzio, e pazienza se in realtà la biografia dice che l’Agrigentino era un convinto fascista, non meno del Vate… Resta il fatto che questo grumo di verità ermeneutica è un dato certo, autentico, ormai assimilato, su cui si può contare. Sì, Pirandello – nonostante i suoi occhiali graduati di forte conservatorismo, o forse proprio a causa loro, perché gli opposti estremismi talvolta si toccano e si sovrappongono – ci aiuta a leggere le devastazioni della società del capitale, forse più nella sua narrativa (per esempio nella pregnanza incisiva di talune novelle) che nel suo teatro, ma questo è tutto?
Direi di no, direi che c’è un intero continente, quasi ancora interamente da scoprire, e questo riposa indubitabilmente sulle pièces, che potrebbero fare dunque la fortuna dei teatranti, se i teatranti avessero un po’ più di gusto e di coraggio. A differenza degli altri tre grandi drammaturghi a cavallo tra Otto e Novecento (Ibsen Strindberg Čechov), nei suoi testi teatrali Pirandello non presenta il protagonista borghese nell’interezza della sua esistenza, pubblica e privata, sociale e individuale, professionale e sentimentale. I suoi personaggi possono anche essere “avvocati”, ma non ci parlano mai delle problematiche lavorative, delle loro ossessioni di carriera, come avviene ad esempio al marito di Nora di Una casa di bambola. Il teatro, per Pirandello, è unicamente l’incontro-scontro tra il maschile e il femminile, ma a un orizzonte più ristretto corrisponde – occorre riconoscerlo – una capacità di scandaglio assai penetrante. L’Agrigentino ha l’abilità e la tenacia rara di infilare il bisturi là dove l’uomo e la donna s’incrociano e si contrappongono, sa mettere a fuoco come pochi il desiderio della donna e il desiderio dell’uomo. Sciascia ha detto che Pirandello è l’autore più femminista della letteratura italiana, e mi pare che abbia ragione. Dietro la barriera protettiva di un linguaggio molto discreto, quasi reticente, forse persino casto, Pirandello riesce a indagare il mistero del piacere femminile, la sua difficoltà, tra frigidità e scatenamento oblioso dei sensi (da Il giuoco delle parti, a Vestire gli ignudi, da Trovarsi a Non si sa come).
Per Pirandello, però, il desiderio femminile è principalmente quello della maternità. A questo proposito c’è un testo pirandelliano da sempre dimenticato, rimosso, che in tutta la mia vita accademica ho continuamente (e inutilmente) proposto a tutti i registi che conosco, grandi piccini e mezzani (Ronconi mi ascoltò e ci fece sopra un laboratorio, ma si fermò lì, senza trasformarlo in vero spettacolo), ed è L’innesto, storia di una moglie borghese, Laura Banti, che nonostante sette anni di matrimonio, non ha figli, perché il marito è sterile. Violentata da un bruto in un parco romano, resta miracolosamente incinta, e combatte una dura battaglia per tenersi il figlio, trionfando sul marito che vorrebbe invece l’aborto. Tralascio per spirito garantista il sospetto che, in mancanza d’inseminazione artificiale, questo stupro, la vittima, se lo sia un po’ cercato, magari inconsciamente, poco importa, e dico che comunque risultano un po’ miracolose, cioè statisticamente assai improbabili, siffatte fortunate coincidenze: basta un solo incontro sessuale perché sia garantita la gravidanza… Non è infatti l’unico caso del teatro pirandelliano: la stessa cosa avviene in altri due testi. Certo – direte voi – tre casi su 42 testi complessivamente scritti da Pirandello sono poca cosa, corrispondono a un indice del 7.14%, ma se li rapportiamo ai testi il cui plot preveda una nascita, abbiamo un rapporto di 3 a 9, cioè un indice rilevantissimo del 33.3%. Meccanismi di questo genere si ritrovano nella Bibbia, per esempio nell’episodio delle figlie di Lot. Un modo però di ribadire che il sesso non costituisce valore in sé, non ha autonomia, è puramente al servizio del dovere procreativo. Tutto questo può stupire in un intellettuale come Pirandello, autore dichiaratamente laico, ma l’inconscio, si sa, è molto più possente del nostro conscio, e nell’inconscio stanno, ben radicati, i convincimenti assimilati nell’infanzia e nell’adolescenza.
L’originalità de L’innesto è dato però dal fatto che il personaggio ha una duplice valenza: c’è in lei la brama della maternità sino alla ferocia, ma c’è anche una morbida capacità seduttiva. Dopo il primo atto che racconta lo stupro, la coppia si ritira nella villa di campagna per un intero mese, sorta di seconda luna di miele che nasconde una progettualità inquietante (far credere al marito di essere lui il padre del bimbo nascituro), per la quale Laura Banti dispiega un’incantevole affascinante sensualità, che dovrebbe interessare qualche attrice brava e ambiziosa.
Assai diverso, invece, il desiderio maschile, decisamente trasgressivo, ma sempre molto nascosto, con mirabolanti occultamenti che hanno impedito sin qui alla critica pirandelliana di vedere tutto il marcio che si annida in Danimarca. I Sei personaggi sono un’assoluta oscenità trionfante, che però nessuno riesce a percepire perché schermata dal marchingegno barocco del cosiddetto teatro nel teatro. Due, essenzialmente, le ossessioni primarie: la pedofilia (abbastanza visibile nei Sei personaggi, ma più sottile e più intrigante in molte novelle dell’ultima stagione del nostro), e una fantasia torbida che amo definire triangolo perverso, costituito da due uomini e una donna, dove il secondo uomo può anche essere rappresentato, nei casi più estremi, da un più ampio gruppo di uomini violenti, una sorta di branco, come diremmo oggi, che molesta la donna sotto gli occhi del suo uomo, apparentemente in sofferenza, ma segretamente in eccitazione erotica (e qui, sempre in ordine cronologico, almeno quattro i testi di riferimento, Il giuoco delle parti, Sei personaggi, La signora Morli, una e due, Lazzaro). Ovviamente non sono fantasmi solo pirandelliani, appartengono in pieno a espressioni alte della cultura occidentale, che si è sempre presa il diritto di dire anche verità sgradevoli, benché politicamente non corrette. Per la pedofilia (intrecciata all’incesto) si può partire dal decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio, là dove tratta degli amori di Mirra. Per il triangolo perverso forse il mito fondatore è Tartufo di Molière, ma il filo rosso passa per The Country Wife di William Wycherley e arriva a Le venin (1927) di Henry Bernstein, autore ebreo, fatalmente attento alle novità di quella scienza ebraica che è la psicanalisi. In verità scrittore grossolano, ma che ha indubbiamente il merito storico di aprire la scena europea alle tematiche della psicanalisi, inventando situazioni incentrate sulle più torbide articolazioni dell’animo umano, sugli istinti oscuri della perversione. La critica francese ne prende atto e comincia per tempo a utilizzare il termine sessualità, al posto del vecchio sostantivo amore, sebbene cerchi a sua volta di proteggersi, innalzando un’aggettivazione che definisce via via gli intrecci di Bernstein come perversi, morbosi, malsani, torbidi.
Particolarmente illuminante – per il nostro discorso su Pirandello – quanto accade a proposito della pièce intitolata Le venin, il cui protagonista maschile, apparentemente geloso al massimo grado, costringe la propria amante, Françoise, a confessargli di avere avuto rapporti con ben cinque uomini; dopo di che la colpisce con un potente schiaffo, salvo chiudere l’atto facendo l’amore con lei. In realtà – come comprende subito la critica francese del tempo – non è affatto sicuro che sia andata davvero così. È probabile che la donna sia stata costretta a inventarsi tradimenti mai avvenuti, e solo per soddisfare i gusti bizzarri del suo uomo, il quale si eccita – esattamente come Guido Venanzi del pirandelliano Il giuoco delle parti (1918) – a immaginarla oggetto sessuale nelle mani di altri uomini. Il bello è che quando la sua pur amatissima Marta Abba, nel 1928, sembra interessata al personaggio di Françoise, e medita di poter mettere in scena Le venin, il Maestro risponde con stupore e con viva indignazione, osservando che il personaggio “è soltanto una bestia lasciva e spudorata, la quale scazzottata dall’amante dopo averla costretta a raccontargli certe turpi enormità con cinque uomini, alla fine conclude l’atto con lui in una maniera che non ti dico”.
Il che significa che Pirandello non si rende conto di aver scritto, lui, un decennio prima di Bernstein, con Il giuoco delle parti, la stessa storia, ferma restando la diversa qualità di scrittura, essendo Le venin opera stilisticamente corriva, perché troppo esplicita, eccessiva, gridata, ma di cui il nostro precorre motivi e sviluppi. Non solo, Pirandello si rivela più avanti di Bernstein, più audace: il suo Guido non ha bisogno della foglia di fico della falsa gelosia del protagonista di Bernstein: rimane dietro la porta a origliare e a guardare dal buco della serratura la sua donna insidiata da quattro giovinastri. Il pubblico italiano del tempo (ancora molto pre-freudiano) non capì, non accettò e fischiò sonoramente Il gioco delle parti, condannando per un cinquantennio al silenzio quello che è (forse) il capolavoro assoluto di Pirandello, sino alla riscoperta operata da De Lullo-Valli-Falk nel 1965. S’intende che Pirandello procede per forza di intuizione poetica, se posso usare questa espressione. L’Agrigentino è un intrepido esploratore del cuore di tenebra dell’animo umano, ma lo è a sua insaputa, come accadde al famoso ministro berlusconiano, cui fu regalato un appartamento con vista sul Colosseo di cui non aveva contezza. Pirandello è un gentiluomo del Sud, assai conservatore, omofobo e persino anti-ebraico, che conosce poco Freud, di cui parla male, ma poco importa. Come ha scritto lo stesso Freud, gli artisti “hanno la sensibilità necessaria per percepire negli altri i moti reconditi della psiche e il coraggio di lasciar parlare il proprio inconscio”.
Spero di essere stato chiaro. In ogni caso, per eventuali approfondimenti, mi permetto di rimandare al mio Discesa nell’inferno familiare. Angosce e ossessioni nel teatro di Pirandello (Torino, Utet Università, 2018), e, per un allargamento della prospettiva – al di là di Pirandello, che coinvolga l’intero orizzonte della cultura occidentale – al mio recente Dacci oggi il nostro desiderio quotidiano (Bari, Edizioni di Pagina, 2021).