Un giorno dopo l’altro, il Cinema

Gaetano Renda – Esperto di cinema

Un giorno dopo l’altro il tempo se ne va. Un giorno dopo l’altro è cambiata la vita che avevamo.

Domani sarà un giorno uguale a ieri. La speranza, ormai un’abitudine. Andando in giro per la città vediamo le stesse case, gli stessi negozi, le stesse strade, gli stessi bar e ristoranti. Ma c’è qualcosa di nuovo. Le insegne sono tristemente spente e le nostre vite, abituate a ricevere impulsi dalle luci della città, si sono pian piano assopite.

E fra tutte quelle vetrine e insegne, le più tristi appaiono, ormai, quelle dei cinema. Mentre tutte le altre, di tanto in tanto hanno potuto farsi ammirare dai passanti, quelle cinematografiche, da quasi un anno, non hanno più potuto fare sfoggio di sé per illuminare la città.

E dire che chi ha inventato il cinema già con il nome era portatore di Luce. Lumière.

Un giorno di cinema a Torino come a Milano, a New York come a Parigi, a Londra o a Mosca, prevedeva (e prevede) sempre lo stesso rito, ormai più che centenario. Scegliere la sala dove andare, con chi andarci (magari anche da solo), che film vedere.

Come vestirsi.

Ci sono persone per le quali il cinema è stato una grande parte della loro vita sociale.

E il camminare verso il cinema, il chiacchierare nell’atrio, il salutarsi fra persone, farsi vedere con il vestito (magari il solito, portato con fierezza) della festa o con la nuova pettinatura, parlarsi sottovoce durante la pubblicità o i prossimamente (chiamiamoli così, non trailer), era il momento irrinunciabile di quella giornata. Importante almeno quanto il film. Come se lo spettacolo iniziasse da quel ritrovarsi nella sala cinematografica che diventa, per l’occasione, palcoscenico di ogni spettatore.

Poi, il buio in sala e l’inizio del film. Ognuno a godersi l’avventura o la storia d’amore sullo schermo a modo suo. Come le persone felici e quelle infelici: ognuno a modo proprio.

A un certo punto della nostra esistenza, poco dopo l’inizio dell’anno “venti-venti”, qualcuno si è preso la vita degli altri entrando prepotentemente in scena: “mi chiamo Covid, Covid-19”.

Come un flagello, la pandemia si è improvvisamente abbattuta sulle nostre vite, minando le nostre certezze e obbligandoci a stili di vita mai conosciuti prima.

Per intere generazioni la sala cinematografica è stata il luogo di massima socializzazione e di concentrazione di energie emotive; è stato lo spazio dove l’uomo e la donna del Novecento hanno percepito progressivamente la sensazione di apertura verso mondi lontani.

Nei cinema sono stati celebrati i battesimi dei primi baci e dei primi amori. Tutto quello che l’uomo e la donna del Novecento sono stati, lo sono diventati anche grazie alla sala cinematografica.

Con Vacanze Romane il mondo intero ha scoperto le bellezze di Roma e ha familiarizzato con gli usi e costumi del nostro paese. Con Ladri di biciclette, Sciuscià, Roma Città aperta, Il Gattopardo, C’era una volta il west e mille altri film, la cultura italiana è arrivata negli angoli più remoti della terra.

E lo stesso è successo a noi andando al cinema per vedere Casablanca, o Via col Vento, Lawrence d’Arabia e Il Dott. Zivago. O il magnifico Ombre Rosse.

Il grande schermo è stato il punto di riferimento insostituibile per sognare e per amare, per catturare stimoli culturali e di divertimento che mai avremmo potuto permetterci diversamente. È stato (ed è) un viaggio alla scoperta di mondi sconosciuti.

L’arrivo di Covid-19 ha interrotto d’un colpo quella lunga storia d’amore.

I cinema, i teatri, i musei, le scuole, improvvisamente sono stati costretti alla chiusura e nella società si è aperta una voragine culturale che giorno dopo giorno ha scavato solchi profondi fra le nostre vite e quelle degli altri, fra tutti quanti noi e le nostre abitudini radicate, fra i nostri stili di vita e le esigenze di tutela della salute.

Non era mai successo prima, neppure durante le guerre.

A distanza di quasi un anno dalla chiusura imposta alle sale e ai luoghi della cultura, ci assalgono molti dubbi sul futuro, pur avendo aderito totalmente alle necessarie scelte restrittive prese a tutela della salute di tutti.

La nostra società, causa Covid, sta andando verso una direzione davvero preoccupante da un punto di vista sociale, culturale ed economico. È sotto gli occhi di tutti: a distanza di un anno non possiamo non gridarlo ad alta voce. Le scelte del governo, al di là della tutela della salute, che è sacrosanto, sono fortemente indirizzate verso l’incentivazione della politica dei consumi. E di null’altro.

E fra i consumi, quello dell’intrattenimento domestico è stato fortemente stimolato. Lo streaming, le piattaforme, i film di prima visione in casa sono stati venduti ai destinatari del focolare domestico come nuovo status symbol irrinunciabile, cosi come avveniva con il telefonino alla sua nascita.

In fondo, in modo assolutamente semplicistico, con la scusa del virus si è scelto di fare convergere i necessari momenti di svago, di relazione virtuale e di nutrimento nello stesso luogo, le pareti di casa. Così da convincere ognuno di noi, ogni mattina, mentre esegue i giusti esercizi ginnici per non fare intorpidire i muscoli, a esclamare: “che buono l’odore della piattaforma che abbiamo appena istallato”; giusto per sentirsi un po’ Robert Duvall nei panni del colonnello Kilgore in Apocalypse Now, quando diceva con divertente cialtroneria: “mi piace l’odore del napalm, al mattino”.

Casa dolce casa. Ci si vive, ci si può lavorare, ci si può mangiare e dormire. Ora si possono vedere anche i nuovi film sulle piattaforme. Basta abbonarsi: uno, due, tre, tanti possibili abbonamenti per altrettante piattaforme. Un bel risparmio sul costo dei mezzi di trasporto da usare per raggiungere il cinema. Ci guadagna anche l’ambiente, si evitano gli incidenti stradali, le solite resse davanti ai cinema. A rovinare tale idillio casalingo a suon di film, le statistiche, che danno in forte aumento i reati in famiglia durante il lockdown.

Cosa ci manca per essere felici?

Ci manca qualcosa di importante.

Comincia a formarsi una coscienza critica nella nostra società rispetto alla situazione venutasi a creare per l’assoluta mancanza dei luoghi della cultura in quanto punti di riferimento per la socializzazione, e anche in considerazione del perdurare di questo indefinito periodo di chiusura.

La produzione culturale è, per sua definizione, destinata a un consumo collettivo. L’identità di un paese si nutre di cultura. La cultura passa attraverso il cinema, il teatro, i musei, le mostre, le sale da concerto, le biblioteche, le scuole. Esattamente da tutti quei luoghi, da quegli spazi di socializzazione di cui i cittadini da quasi un anno sono stati privati.

È possibile vivere solo di cibo, di telefoni, di televisione in tutte le sue diramazioni, di vestiti, di pc e di poco altro?

Si percepisce, ormai, la presenza di domande dalle ombre lunghe: come potrebbe essere la visione di un film, domani? E noi, come vorremmo che fosse?

“Domani” è già “oggi” per i colossi dello streaming e per gli amanti della visione domestica, quelli con un telefonino ormai irrinunciabile protesi della mano, sempre pronto per ogni possibile collegamento con l’amico dell’appartamento accanto.

Come vorremmo che fosse per noi? Come è sempre stato, con perfetti sconosciuti seduti nella poltrona accanto, con quella gioiosa voglia di sentirsi parte di una comunità sottesa, consapevoli del fatto che ognuno sarà capace di stabilire un rapporto di intimità con il film durante la visione, pur fra tanta gente. Emozionati fra persone sconosciute che si emozionano durante la stessa identica scena. Come sempre, con la stessa voglia di tornare a casa a piedi percorrendo la strada con qualcuno incontrato al cinema, parlando del film. Andando a bere una birra fresca in quella birreria dove si aspettano con grande calore gli spettatori del cinema vicino, pronti a sentire i commenti puntualmente discordi. Il cinema è anche questo, sono i bar, le pizzerie, le trattorie, le vinerie e le birrerie. Altri luoghi della socialità che spesso vivono della voglia di continuare a discutere dopo la fine del film. E già, il cinema è anche un grande volano che alimenta convivialità e, dunque, altra economia.

C’è chi dice: “sì, ma io in streaming vedo tante cose, ho rivisto quel film che non vedevo da tanto e ho visto anche quello che mi ero perso al cinema”. Certo, è cosi, è dal 1954 che la televisione ci nutre di film e ci dispensa anche cultura. Lo fa anche adesso, a maggior ragione, con la tecnologia digitale e la moltiplicazione delle possibilità offerta dalla tv con le sue piattaforme.

La convivenza fra i due diversi modi di fruire i film è possibile, ma è necessario stabilire un dialogo costante per trovare forme di collaborazione che prevengano ogni prevaricazione.

Il problema principale, però, non è questo. È che un giorno dopo l’altro, così, alla chetichella, si cerca di imporre stili di viti che non sono davvero accettabili. C’è una linea di tendenza che porta a chiuderci tutti in casa e a consumare in modo sfrenato per mezzo di un click.

Chiuderci nei nostri piccoli, autarchici gusci può portare indifferenza e incapacità di relazione.

Vorremmo non diventare indifferenti e disumani con la scusa della pandemia e si stanno già manifestando i primi segnali di rifiuto: cominciamo a non accettare più tutto questo e un giorno dopo l’altro ci riprenderemo le nostre vite di prima. E i nostri film al cinema, sul grande schermo, fra amici e fra persone sconosciute, per una visione collettiva.

Se la gente vuole conoscersi va al cinema, va a teatro, va nei musei, va a sentire musica, frequenta le mostre. E i ragazzi vanno a scuola.

La cultura è una tra le forze più potenti di ogni comunità. Non vogliamo più rinunciarci.

Un giorno dopo l’altro.

Ricordi al tempo di Internet

Giovanna Giordano
Informatica, titolare Escamotages, co-fondatrice Sloweb

Quando le fotografie si stampavano sulla carta e ognuna di esse aveva il suo bel corrispettivo in lire, si stava molto attenti a selezionare le inquadrature ancora prima ancora di premere il pulsante. Quando poi si ritirava dal fotografo il pacco con i negativi da una parte e le fotografie stampate dall’altra, prima si mostravano agli amici più intimi, poi scattava in ciascuno il bisogno di metterle in ordine. Qualcuno le classificava in modo maniacale, qualcuno riempiva album con gli scatti migliori e scriveva dettagliate didascalie, qualcun altro le lasciava accumulare in un cassetto o in uno scatolone per poter giocare ogni tanto a pescarle a caso per ricordare un momento speciale.

Le foto appena ritirate erano di solito un po’ incurvate e avevano un caratteristico odore di nuovo, poi, a furia di stazionare nei cassetti o restare incollate agli album, si distendevano, si rilassavano e si scolorivano con il tempo. A distanza di anni capita di ritrovare uno scatolone dove le foto si sono un po’ mescolate: l’austero bisnonno coi baffi si trova proprio al di sopra della ragazza in bikini degli anni sessanta, il nonno arrampicato in montagna incontra il nipote lattante adagiato sul petto prosperoso della nutrice, oppure l’ex-ex-ex-fidanzato si ritrova accanto alla foto di nozze della sua ex-bella con un altro molto diverso da lui.

Comunque fossero organizzati – i ricordi sono un fatto assolutamente personale – quei fogli di carta fotografica, prima in banco e nero poi colorati, costituivano i pilastri della nostra memoria personale, aiutati da pacchi di lettere, ritagli di giornali, qualche bigliettino significativo: una dichiarazione d’amore della compagna di banco, una cartolina di auguri inaspettata, il biglietto del tram usato per quell’appuntamento.

Che accade oggi? Tutti abbiamo in tasca uno smartphone con almeno due telecamere da decine di megapixel, ciò che scattiamo si vede subito (altro che Polaroid!), si può ritoccare, sottolineare, migliorare come un quadro. Di conseguenza siamo sempre tutti pronti a fotografare e, subito dopo, pubblicare le nostre imprese sui social. In questo modo anche gli amici lontani o illustri sconosciuti, in tempo quasi reale, possono sapere che cosa abbiamo cucinato oggi, vedere il nostro cane o ricevere i nostri auguri di Pasqua con tanto di uova e coniglietto.

Certamente la comunicazione online e social presenta molti vantaggi e nuove opportunità di coltivare rapporti personali, tuttavia mi chiedo come facciamo oggi a costruire ricordi che durino nel tempo. Siamo immersi in comunicazioni sempre più veloci e nell’illusione che tutti i nostri dati siano sempre a disposizione su qualche nuvola o sui social, ma raramente ci concediamo momenti calmi di riflessione e riorganizzazione dei dati stessi. Scattiamo in continuazione piattini e gattini, bicchieri e piaceri, panorami e legami, ma distinguiamo ancora i ricordi significativi dal chiacchiericcio? Se vogliamo ripescare qualcosa di importante, sappiamo dove andare a cercarlo?

Rinvangare il passato non serve, l’importante è essere consapevoli dei nostri comportamenti e organizzarsi di conseguenza per superare le criticità senza perdere la capacità di elaborare ricordi, quelli senza i quali non possiamo costruire la nostra identità.

L’Affiche Rouge

Gianni Sartorio
Presidente International Help onlus

Nella Francia occupata dai tedeschi, fra il giugno ’42 e il novembre ’43 operarono i FTP-MOI (Franchi Tiratori Partigiani — Mano d’Opera Immigrata). Erano associati ai FTP fondati dal Partito Comunista. Un gruppo di sessantacinque resistenti, tra combattenti e fiancheggiatori, prevalentemente privi della nazionalità francese. Il loro fondatore fu Boris Horban, ebreo russo. Nome vero Bruhan. Riunì rumeni, ebrei polacchi, italiani, armeni.

Nel settembre del ’43 fu sostituito al comando da Missak Manuchian, armeno. Aveva perso il padre durante il genocidio del 1915. Emigrato in Francia, falegname per vivere, poeta per passione, s’iscrisse al PCF. Sotto la sua guida il gruppo fu attivissimo. In quel periodo compirono 229 azioni. Di esse la più spettacolare fu l’uccisione, nell’elegante XVI° arrondissement, del generale delle SS Ritter, responsabile della deportazione in Germania di mezzo milione di francesi.

La Gestapo e la polizia di Vichy spesero tutte le loro energie per fermarli. Nell’autunno ’43 la banda fu sgominata grazie a un traditore e i suoi membri catturati e giustiziati nel febbraio ’44.

Per annunciare la fine del gruppo, i nazisti fecero affiggere 15mila manifesti di colore rosso, l’Affiche Rouge, appunto, con i ritratti di otto partigiani, tra i quali Manuchian e con sei foto di attentati da loro compiuti. Il colore voleva sottolineare la sete di sangue dei “criminali”. Il testo affermava: “Des liberateurs? La liberation par l’Armée du crime”.

In realtà il manifesto costituì un’autorete per gli occupanti. Crebbe nella popolazione lo sdegno e proprio in quel periodo aumentarono in misura esponenziale le adesioni alla Resistenza.

Horban, che aveva temporaneamente lasciato la Francia, tornò e giustiziò il traditore. Poi emigrò in Romania. Ritornò ancora nel 1994 per ricevere la Legion d’Honneur dalle mani di Mitterrand in occasione della denominazione di una via al gruppo, Rue du Groupe Manuchian, nel XX° arrondissement.

Aragon nel ’55 dedicò un poema ai partigiani dell’Affiche.

Léo Ferré traspose il testo in una canzone nel 1959.

Le allegorie nell’arte

Marilde Bordone
Insegnante di Storia dell’arte

Tutti i periodi dell’arte figurativa sono caratterizzati dalla presenza di una vasta gamma di allegorie: a partire dall’età antica fino a quella contemporanea.

Nella tradizione cristiana anche la progettazione dello spazio si carica di significati allegorici.

La tipologia della chiesa romanica a croce latina ad esempio è collegata all’allegoria del cammino da percorrere durante la vita verso la perfezione: il percorso di andata verso l’abside, campata per campata, è diretto verso la luce divina e il ritorno si conclude col monito della morte attraverso il giudizio universale raffigurato sulla parete della controfacciata dell’edificio.

Nel Rinascimento la costruzione dello spazio collettivo e simbolico (città ideale) ha invece come centro l’uomo: alla Bibia Pauperum si sostituisce la cultura classica tradotta in linguaggio per letterati, filosofi e persone colte e il tema dello spazio veicola il significato allegorico del percorso verso la conoscenza.

L’allegoria del tempo è molto diffusa nella pittura rinascimentale dove compare attraverso la figura dell’uomo barbuto con la falce, la clessidra, la roncola e talvolta lo specchio.

Spesso nell’arte l’allegoria del tempo si esplicita nelle tre età dell’uomo: nascita, vita e morte come avviene nell’opera di Giorgione (tre filosofi) o nelle figure femminili di Gustav Klimt (le tre età della vita).

La nascita viene anche rappresentata dalla presenza di una fonte o di un uovo: l’uovo cosmico è la matrice della vita e della divina creazione.

L’allegoria della vita si esprime sovente attraverso la danza nel suo andamento circolare e quella della morte nella danza macabra, oltre alla raffigurazione più scontata dello scheletro con la falce.

Nel medioevo erano molto diffuse le allegorie delle stagioni e dei mesi: le stagioni raffigurate come uomini e donne, divinità o come animali corrispondenti ai solstizi e agli equinozi (per la primavera l’ariete, per l’estate il leone, per l’autunno il toro, per l’inverno il serpente). La primavera era l’allegoria della nascita, l’estate della maturità, l’autunno del declino e l’inverno della morte.

I segni zodiacali, associati ai mesi dell’anno, venivano raffigurati attraverso i mestieri e le attività quotidiane dell’uomo.

Le allegorie rifluiscono nelle opere dei pittori simbolisti e ancora in quelle dei surrealisti attraverso la metafora del “viaggio” dell’anima associato alla conoscenza di sé o di Dio e del “sogno” come viaggio inquietante della mente fuori dal controllo della volontà.

Anche nell’arte contemporanea è vasto l’utilizzo delle allegorie come avviene ad esempio nella Venere degli stracci di Michelangelo PIstoletto, metafora della memoria in cui gli stracci rappresentano il quotidiano, tutto ciò che è transitorio, e la Venere l’eternità.

Il potere dell’arte si afferma sempre, in mille forme, come potente antidoto contro la morte.

Meglio un campo di concentramento che un ipermercato

Paolo Bertinetti
Professore emerito Università di Torino
Già Preside della Facoltà di Lingue.

J.G. Ballard era convinto che la fantascienza fosse la forma più adatta per parlare del presente. Ma non la vecchia fantascienza, che immaginava un futuro con le navicelle spaziali (che già c’erano), bensì una nuova fantascienza, che doveva tendere verso lo spazio psicologico, verso uno “spazio interno” simile a quello che si ritrova nei racconti di Kafka e nei migliori film noir.

Ballard individuò la (quasi) apocalisse nei possibili sviluppi demenziali della realtà quotidiana. Esemplare, a questo proposito, è il suo romanzo più noto, Crash, che costituisce un’inquietante e allucinata allegoria della “società dell’automobile”, in cui l’auto è oggetto di amore e di morte e in cui le superstrade sono un campo di battaglia di auto lanciate a folle velocità. Ballard è un autore che affida alla negatività (come sarebbe piaciuto ad Adorno) il sogno di un mondo in cui le cose stiano altrimenti. Forse però, paradossalmente, il romanzo più bello di Ballard è L’impero del sole, che è scritto, con l’eccezione della “visione” che c’è nel finale dell’atomica su Nagasaki, con un taglio pienamente realistico e che ricostruisce l’esperienza della sua infanzia in un campo di concentramento di Lunghua nella Shangai occupata dalle truppe giapponesi durante la guerra. I meccanismi psicologici del bambino, tra timore e ammirazione per il nemico, tanto feroce quanto efficiente, la dimensione “avventurosa” in quella condizione di prigionia, la distanza tra la sua esperienza e quella degli adulti, sono resi con una profondità di analisi affascinante e in una prosa di gradevolissima leggibilità. In quella specie di prigione, ricorda Ballard, “trovai la libertà”. Molta di più di quanto non ce ne sia nei grappoli di condomini a trenta piani e nei giganteschi shopping centres che fanno da sfondo ad alcuni dei suoi romanzi più inquietanti, come Il condominio e Regno a venire. Il libro è pubblicato nell’Universale economica di Feltrinelli.

Clinica dell’Amicizia di Kabul – rapporto 2020

La Clinica dell’Amicizia del Distretto 13 di Kabul riceve ormai da molti anni aiuti da parte della nostra associazione.

Chi fosse interessato a scaricare il rapporto completo sanitario del 2020 (escluso il mese di dicembre, ma comprensivo dei dati sulle vaccinazioni), può farlo di seguito:

La Cometa di Hale-Bopp

Pier Paolo Strona
Ingegnere fotografo musicista

Esistono sulla terra, oltre alla società umana, altre società di esseri viventi, di varie dimensioni e ca­rat­teristiche, organizzate in strutture relazionali e fun­zionali che legano gli individui che le costituiscono in rapporti e ruoli determinati, pensiamo alle api o alle formiche.

Potremmo allora fare uno sforzo di immaginazione e fantasticare su come una singola ape, una sin­go­la formica vivano la loro giornata, relazionandosi all’interno del loro gruppo e al loro mondo esterno. Naturalmente non sappiamo qual è il grado di percezione di loro stessi e della real­tà circostante che api o formiche possono avere, e su questa strada potremmo avven­tu­rarci solo con l’immaginazione e la fantasia. Ma fantasticare in tal modo potrebbe aiutarci a usci­re da noi stessi, dalla nostra situazione contingente, a osservarci dal di fuori, per quello che siamo, o sembriamo essere a noi stessi, un modo per prendere e mantenere la consapevolezza della nostra condizione esistenziale effettiva, quella di vivere su un minuscolo granellino, la Ter­ra, in rotazione su se stessa, e che, insieme ad altri granellini, ruota intorno a un gra­nel­li­no poco più grosso, tutti insieme in movimento con miliardi di miliardi di altri corpi lungo rotte a noi sconosciute.

Presumibilmente la maggior parte degli uomini non vive quotidianamente questa realtà in modo cosciente, presi dalle attività e dai problemi di tu­tti i giorni che riempiono la no­stra mente ed esauriscono le nostre energie. Con il passare degli anni, poi, si consolidano nei più le “abitudini”, che nella nostra società sono ad esempio la televisione alla sera, la partita al­lo stadio o la gita la domenica, l’orario di lavoro che scandisce la giornata, la spesa il sabato mat­tina e così via: con il tempo ci si può dimenticare della nostra condizione esistenziale, che ne­lla realtà è ben diversa, e che rimuoviamo dai nostri pensieri. Questa perdita di contatto con la realtà fisica di cui siamo parte può riflettersi molto negativamente sulla scala di valori che ci costruiamo, guida dei nostri comportamenti: è una condizione che pian piano ci porta a una alienazione totale di dipendenza da cose e da persone, di autolimitazione della nostra libertà, di ricerca di sicurezze effimere là dove non esistono, portandoci a costruire una no­stra gabbia, che cerchiamo di riempire con comodità inutili e insoddisfacenti a prezzo di f­a­ti­che e tensioni sproporzionate, la gabbia della no­stra rinuncia a vivere.

Bene! Nella primavera del 1997 è apparsa nel cielo stellato di mezzo mondo una cometa gi­gan­tesca e meravigliosa, la cometa di Hale-Bopp, dal nome dei due astronomi che per primi l’han­no individuata nel suo moto verso la terra, e la vita di molte persone per un po’ di tempo è cambiata: non più serate davanti alla televisione ma ore dedicate a cercare la cometa, a os­servarla, a parlarne con gli amici, a fotografarla! Città oscurate per poter consentire a tut­ti di vederla senza dover fare viaggi alla ricerca di colline, montagne, sprazzi di buio sem­pre più rari nel nostro territorio!

La presenza continua e costante per giorni e notti della cometa, è stata sentita e vissuta con intensità da molti, un richiamo alla nostra realtà più vera, al mondo reale di cui siamo par­te, alla coscienza di quell’energia che tutto muove e crea e di cui racchiudiamo in noi una mi­nuscola scintilla; è stata, ci si augura, uno scrollone dato al cumulo di tante inconsapevoli sco­rie quotidiane della nostra vita!

Per quanti? …   Per quanto tempo? …

(http://pierpaolo-strona.arty.it)

Storie di cavalli e altro

Mino Rosso
Poeta

No, ecco, i miei cavalli non hanno niente a che vedere con quelli di Hank1. Che è pure uno sporcaccione. Beh, io non sono mai stato all’ippodromo per giocarci su. Eppure con i cavalli, o i loro parenti, io sempre avuto a che farci. Già bambino. Sì, perché mia mamma mi raccontava sempre, per farmi addormentare, la storia di “Contatore”. Che era un asino. Ma non importa. La storia era questa: Suo nonno (voglio dire di mia mamma) faceva il panettiere a Loreo2 e, come tutti i panettieri, lavorava la notte per consegnare il pane fresco al mattino. Il paese era allora molto piccolo e per la consegna nei negozi dei paesi vicini bisognava fare un lungo giro. Già, così il nonno finito il lavoro non andava a dormire ma partiva con il suo carro per le consegne. Beh, non era una vita molta comoda. Per fortuna il suo asino aveva imparato a memoria tutto il percorso per i vari negozi e così ci arrivava da solo mentre il nonno dormiva sul carro. Dormiva sino a quando Contatore si fermava e con un raglio lo avvisava che si era arrivati davanti al negozio per la consegna. Beh, a me questa storia è sempre piaciuta. Come l’idea che quell’asino sia stato chiamato Contatore. Vabbè. Ma i cavalli (quelli veri, non come lui che era solo un parente) ho dovuto presto conoscerli a Gassino3. Uno era quello di un vecchio e bravo contadino che aveva trasportato mia mamma, ingessata dalla testa ai piedi per via delle ossa che sbriciolavano, all’Ospedale del Pedaggio4su un carro che io ricordo con quattro ruote e che, di sicuro, serviva per trasportare il letame. Sì, lo ricordo a naso. Beh, una Croce Rossa impropria ma quanto mai importante in quei giorni. Mah, ci si abitua a tutto. Finiti gli anni di vacanza per la guerra a Gassino ecco il rientro in città a Porta Pila5. Beh, anche qui i cavalli. Quelli da tiro. Pesanti, lenti con le zampe dalle frange agli zoccoli. Quelli che con gli zoccoli che facevano le splùe6 sulle grosse pietre rettangolari disposte a binario nel ciottolato delle strette vie del centro ferito dai bombardamenti. Erano bravi. I cavalli. E anche pazienti. Trainavano il carretto del ghiaccio. E aspettavano che il giassé7 consegnasse i pani di ghiaccio. Lunghi quasi un metro se li caricava in spalla portava a quei fortunati che avevano la ghiaccia. Tra il pano e la spalla il fodaȓèt8 con sopra un sacco di iuta per non farlo scivolare. Io poi, questo lo ricordo bene, andavo a raccogliere le briciole, voglio dire i pezzetti di ghiaccio, che restavano sul carro. Con un po’di limone e di zucchero (quando lo si aveva perché si era ricchi in quel momento) si poteva fare il gelato. La ghiacciaia, già. Di solito un brutto mobile in legno dalla linea squadrata. Comunque roba da ricchi. Boh, pazienza. Noi avevamo la moschiera9. L’avevamo appesa nella stanza più fredda dell’alloggio. Il corridoio d’ingresso. Però questi cavalli erano proprio anche di buon cuore. E di intestino non certamente pigro. Ma era proprio per queste loro qualità che ci regalavano la busa10. Detto così può sembrare cosa di cattivo gusto. Non lo era. Appena il regalo veniva depositato ci si precipitava con paletta (di latta) e scopino (di saggina) per raccoglierlo. Beh, bisognava pur avere cura per quel pezzetto di terra in un vaso dove ostinati crescevano quattro rossi gerani, uniche note colorate in una vita ancora grigia. E io cavalli? Beh, alcuni li aveva persino assunti la Gondrand11 per i trasporti in città. Mah. Poi sono diventato grande. Beh, è successo anche a me. E per mestiere ho dovuto interessarmi delle scuderie. E anche dei cavalli da corsa. Animali bislacchi dal pessimo carattere di un mondo infinitamente distante da quello di Contatore e degli altri operari addetti al trasporto. Così bravi, questi ultimi, da finire la loro vita nei nostri piatti (se si avevano i saldi) come bistecche. Già, nel dopoguerra a Porta Palazzo c’erano diverse macellerie che vendevano la loro carne che, finalmente (sì, finalmente) sostituiva il vino bianco con i chiodi lasciati a bagno per settimane. Un improbabile ricostituente, dal pessimo gusto, contro l’anemia (diagnosticata dalla pallida faccia) per il ragazzino Vittorioso e Intrepido12.

1 Hank – Charles Bukowsky (1920-1994), poeta e scrittore statunitense autore, tra l’altro, di Taccuino di un vecchio sporcaccione.

2 Loreo – Paese del Polesine in provincia di Rovigo.

3 Gassino – (Torinese – Gasso [Gasu] in piemontese) è un comune della città metropolitana di Torino. 

4 Ospedale del Pedaggio – Negli anni ’40 si trovava nei pressi di villa Bria (o in un’ala della stessa) lungo la strada Gassino – Sciolze.

5 Pòrta Pila – gergale per nominare il mercato più famoso di Torino e più grande d’Europa: Porta Palazzo. Pòrta Pila deriva dal gioco della pila (testa-croce), gioco che veniva praticato con gli antichi dobloni dopo il mercato. 

6 Splùa – piemontese – scintilla.

7 Giassé – piemontese – venditore di ghiaccio.

8 Fodaȓèt – piemontese – che è il grembiule di cuoio.

9 Moschiera – (detta anche moscaiola) Piccolo mobile in legno costituito da una intelaiatura con ripiani e dalle pareti con rete metallica a maglie strette. Era utilizzata per difendere gli alimentari dalle mosche. Di fatto era anche una sorta di “frigo” per mettere il cibo al “fresco”. Per questo motivo veniva appesa al soffitto della stanza più fresca.

10 Busa – piemontese – escremento animale, stallatico.

11 Gondrand – gruppo spedizioniere a livello mondiale fondato a Milano nel 1866 e ancora oggi è operante.

12 Vittorioso e Intrepido – settimanali per ragazzi del dopoguerra.

I dittatori e molti politici di oggi hanno uno stile simile a quello dei gangster

Peppino Ortoleva
Editorialista del Secolo XIX, accademico e storico,
esperto di comunicazione

Non possiamo ancora sapere con certezza se l’avvelenamento dell’oppositore russo Aleksej Naval’ny sia stato ordinato da Vladimir Putin. Ma il fatto che Angela Merkel abbia dichiarato di considerarlo possibile, e plausibile, è comunque significativo, così come colpiscono le risposte reticenti dei portavoce del Cremlino sulla questione. D’altra parte, il tiranno turco Erdogan ha deciso di lasciar morire per fame la sua oppositrice Ebru Timtik: su questo caso l’Unione Europea invece non ha avuto niente da dire. Altri dittatori o aspiranti tali per ora si accontentano di gesti meno cruenti, ma lo stile, arrogante fino alla violenza verbale, lascia comunque pochi dubbi. Giorni fa il presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, ha risposto, a un giornalista che gli poneva una domanda scomoda, “Ti spacco la faccia”. Donald Trump come altri politici ha ormai preso l’abitudine di fare, anche su temi che riguardano le regole base dell’esercizio della democrazia, affermazioni infondate, per poi contraddirle o lasciarle cadere senza dare spiegazioni. Viktor Orbàn, che guida l’Ungheria da padrone sebbene lo stato sia membro dell’Unione Europea, ha usato e sta usando mezzi di ogni genere per chiudere tutti i giornali che osavano criticarlo.

Sembra che veri ispiratori di molti politici di oggi non siano tanto i Mussolini o gli Stalin del passato quanto i protagonisti della serie televisiva Narcos, o i boss della Chicago anni Trenta. È un modello di gestione del potere nel quale conta solo restare al comando il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo, accumulare denaro per sé, per i familiari e per gli accoliti, e liquidare con i metodi più spicci i possibili avversari. Applicare l’aggettivo “fascista” a questi personaggi rischia di essere insieme generico e sbagliato. Il loro fine non è edificare uno stato totale che chiuda tutti i cittadini in una gabbia fatta di ideologie e leggi liberticide; è avere lo Stato a propria disposizione per fare tutto quello che vogliono. Non intendono introdurre norme più stringenti e liberticide, al contrario hanno bisogno soprattutto di non avere norme che li limitino. Gli slogan che lanciano sono tanto più roboanti quanto più vuoti, somigliano più a cattive pubblicità che a ideologie più o meno coerenti. A volte fanno appello ai valori religiosi, come Erdogan, sapendo che questi hanno oggi un richiamo identitario più forte dei tradizionali nazionalismi. Ma ne fanno un uso largamente strumentale.

Simili forme di gestione del potere possono avere effetti non meno distruttivi delle tirannie classiche. Il rischio è che ne venga devastato tutto il tessuto di regole, scritte e non scritte, sul quale si fonda lo stato di diritto, e che appaia lecito qualsiasi comportamento, perché chi ha il potere si fa le sue regole. Ricostruire la democrazia dopo le tirannie totalitarie, in Europa occidentale come in Giappone, è stato un compito difficile, ha richiesto un lavoro faticoso e coraggioso all’indomani della seconda guerra mondiale. Costruire o ricostruire uno stato civile e democratico dopo anni di dominio incontrastato, o comunque aggressivo e scarsamente soggetto a controlli costituzionali, di boss assetati di potere e di soldi potrà essere altrettanto difficile.

Quello che è peggio, può sembrare inutile. Il principio primo degli stati liberali moderni è che il potere deve essere limitato. Lasciati a se stessi i governi tendono sempre ad “allargarsi”, per dirlo con un’espressione semplice ma efficace: proprio per questo vanno confinati, devono essere contenuti da altri poteri, e vincolati da regole. I nuovi dittatori o aspiranti tali, al contrario, stanno facendo passare l’idea che il potere, quello vero, è e deve essere semplicemente illimitato, che pensare di contenerlo è ipocrita, e in fondo vano. Chi vuole tornare ai limiti costituzionali è accusato di fare il gioco dei “nemici”. E di non meritare il potere, perché dominare sarebbe diritto dei “forti”.

Affrancato da ogni principio e da ogni limite, spogliato delle mediazioni istituzionali essenziali a ogni democrazia, resta un potere nudo: il puro esercizio del comando. Come del resto è nuda sempre la forza dei gangster, quello che conta è solo chi colpisce per primo e chi si libera per primo dei suoi avversari. Come è stato possibile arrivare a un simile stile di gestione delle istituzioni? In alcuni paesi come la Russia perché la democrazia, semplicemente, non è mai riuscita a prendervi piede. In altri per il carattere ultra-personale, ormai, del potere: sono sempre più deboli i corpi intermedi che selezionano chi comanda e possono vincolarlo, ed è sempre meno credibile la rappresentanza parlamentare. Basta vedere quello che è accaduto negli USA alla convenzione repubblicana degli scorsi giorni: un partito radicato da centosessant’anni in tutti gli stati ha concesso pochissimi minuti a coloro che lo tengono in vita in parlamento (e che tra l’altro hanno salvato Trump dall’impeachment), e ha dato luogo quasi esclusivamente a uno show “di famiglia”, dove quello che contava più di tutto era la parentela con il presidente. Ma a favorire questo stile di gestione del potere c’è anche l’idea, che si sta diffondendo, secondo cui non ci sono verità scientifiche, notizie vere o false, e neppure princìpi morali validi per tutti. Non esistono certezze, solo pareri. Se si ragiona così, alla fine l’opinione e le bugie di chi comanda si affermano incontrastati.

Per superare una simile pericolosissima deriva, per ricostruire un tessuto di regole e di istituzioni per tornare a limitare il potere come si deve fare in democrazia, è necessario che si superi il clima di odio di cui questi dittatori o aspiranti tali si avvolgono, che si imponga di nuovo il principio per cui il solo potere accettabile è quello limitato, e da regole che valgono per tutti. Altrimenti sarà difficile liberarsi di personaggi che sembrano avere come veri modelli Al Capone o il narco Pablo Escobar, e delle rovine che un simile uso del potere potrà lasciare.

Ibsen, il poeta del diavolo

Roberto Alonge
Già professore di Storia del Teatro e Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Torino

Del norvegese Henrik Ibsen, il maggiore drammaturgo dell’Ottocento quasi tutti conoscono Una casa di bambola, dramma giustamente sempre esaltato dalle femministe: una donna trattata come una bambolina, prende coscienza di sé e pianta il marito e i tre figli, pur non avendo un mestiere (né tantomeno un altro uomo cui appoggiarsi), e va nella vita, per ritrovare la propria dignità. Epperò quasi nessuno sa che ha scritto anche Il costruttore Solness, dove una sera, in casa di un maturo sposato professionista del mattone, arriva una giovane di ventidue-ventitré anni che gli chiede conto di cosa avvenne esattamente dieci anni prima, stesso mese, stesso giorno, persino stessa ora vespertina. Lui non ricorda, ma lei rievoca: “Lei mi prese con entrambe le braccia e mi piegò all’indietro e mi baciò. Molte volte”. Solness nega, ha rimosso, perché dieci anni prima la giovane era una bambina di dodici-tredici anni, ma ha il coraggio di un’ammissione terribile: “Io devo aver pensato tutto questo. Io devo averlo voluto. L’ho desiderato. Ne ho avuto voglia. E allora – Non potrebbe spiegarsi così?”. I corsivi sono una specialità della scrittura ibseniana (solitamente disattesi dai traduttori-traditori), che qui crea una vera gradazione ascendente (dal pensiero alla volontà, e dal desiderio alla voglia bramosa della carne). Normalmente consideriamo l’abuso pedofilo un evento che traumatizza la vittima, ma Hilde è una vittima consenziente; quell’uomo l’ha sedotta, e l’ha affascinata per sempre, sebbene per noi possa essere l’orco. Le promise di venirla a riprendere, ma non è venuto, ed è lei, allo scadere esatto dei dieci anni, che viene a cercare lui, per strapparlo alla moglie e vivere con lui. Naturalmente Ibsen mette a fuoco la trasgressione ma non si spinge sino a farne l’apologia: il costruttore muore in un incidente/suicidio che gli consente di sottrarsi alla tentazione. Quanto basta comunque per dar ragione a Jon Fosse, scrittore norvegese di oggi, secondo cui Ibsen è “il poeta del diavolo”.