Clinica dell’amicizia di Kabul – rapporto I trimestre 2021

A partire dal 2008, International Help contribuisce alle attività della Clinica dell’Amicizia di Kabul.

Migliaia di persone appartenenti alle classi più povere, soprattutto donne e bimbi, continuano, grazie anche al nostro aiuto, ad usufruire di servizi sanitari essenziali, dalle vaccinazioni al family planning.

Si tratta di una situazione difficilissima, dopo decenni di guerra e la costante minaccia dei Talebani.

Ecco i dati sulle attività della Clinica nei primi tre mesi del 2021.

Hai vinto un premio, collegati subito!

Fabio Salsa
Consulente finanziario

Nella veste di clienti di servizi bancari stiamo diventando sempre più digitali: la tendenza ha subito una accelerazione dal COVID-19 che ha generato una forte spinta all’utilizzo degli strumenti e dei canali elettronici a distanza e non solo nella fruizione dei tradizionali servizi bancari di pagamento ma anche in quelli di investimento.

In questo contesto le cyber frodi sono in formidabile aumento e in continua evoluzione con utilizzo di tecniche sempre più sofisticate.

Obiettivo del mio contributo è aiutare i lettori a riconoscere le minacce di frode, a proteggersi da queste e soprattutto, se possibile, evitarle.

Descriverò le principali tecniche di frode sulle quali porre la nostra attenzione a cui farò seguire spero utili suggerimenti di buone regole per comportamenti virtuosi.

Il phishing è la tecnica di frode regina delle cyber frodi messa in atto da malintenzionati, definiti phishers, che contattano gli utenti tramite email, sms, WhatsApp o telefonate.

Questi messaggi sono molto simili nella grafica e nel contenuto a quelli che la banca può inviare ai propri clienti e hanno l’obiettivo di catturare informazioni riservate e sensibili.

Tramite questi messaggi potreste essere invitati a cliccare su un link che indirizza a una copia fittizia del sito ufficiale della banca, a scaricare una app fraudolenta, a comunicare in vario modo codici della banca online, dati degli strumenti di pagamento elettronico o informazioni personali.

Come riconoscere un messaggio di phishing?

Occorre porre molta attenzione al contenuto del messaggio: sospettate di avvisi di situazioni particolari come per esempio presunte vincite a fantomatici concorsi, imperdibili offerte di lavoro e omaggi ma in particolare problemi verificatisi con il proprio conto corrente, scadenza delle password di accesso.

Soprattutto sospettate di inviti ad agire su link e aree operative al fine di collegarsi per sbloccare il conto o regolarizzare la propria situazione bancaria.

La richiesta di codici e informazioni con l’invito a inserire i dati e i codici personali, per aggiornare dati anagrafici o verificare posizioni e transazioni effettuate sono per definizione richieste di dati che la vostra banca conosce già benissimo.

Le esche gettate in pasto ai risparmiatori posso essere in particolare le email di phishing: i phishers creano email quasi identiche alle email istituzionali di siti, anche molto noti, per indurre gli utenti a cadere nella trappola.

Valutate l’attendibilità di una email seguendo con attenzione queste regole:

  • analizzate l’indirizzo email del mittente perché non sia sospetto, diffidate cioè di email con mittenti molto lunghi, con caratteri insoliti o che non abbiano, nel caso provengano dalla banca, il nome stesso della banca nell’indirizzo;
  • valutate la presenza di errori nel testo del messaggio poiché spesso i phishers modificano i messaggi inviati dalle aziende per inserire nuovi testi e il link di aggancio al sito fraudolento. Di frequente i phishers operano fuori dall’Italia e in questi messaggi possono esserci errori di grammatica, traduzione o formattazione e la presenza anche di un piccolo errore deve insospettirvi;
  • ponete attenzione a link di pagine esterne nelle comunicazioni istituzionali poiché la banca non inserisce mai link a pagine o applicazioni esterne in cui sia richiesto l’inserimento di dati sensibili o credenziali d’accesso;
  • esaminate con attenzione che la ragione sociale della banca sia riportata in modo corretto, potete sempre verificare la ragione sociale corretta sul sito della banca stessa.
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Ulteriori tecniche di frode sono lo smishing (combinazione delle parole sms e phishing) e il vishing (combinazione delle parole voice e phishing): sono forme particolari di phishing che si basano sull’utilizzo del telefono (via voce o via sms). Tipicamente viene richiesto tramite sms o Whatsapp di comunicare le proprie credenziali di accesso ai servizi online/mobile banking.

I phishers invitano a chiamare un numero telefonico oppure effettuano una chiamata preregistrata con la quale viene chiesta immissione e conferma dei codici di sicurezza.

Come si possono evitare phishing, smishing e vishing?

Accertatevi con cura del mittente della comunicazione cioè verificate l’attendibilità del mittente di email, sms o messaggi WhatsApp: non rispondete mai a messaggi su cui avete dubbi se non siete certi della provenienza, non cliccate sui link e non aprite allegati, e cancellate le comunicazioni sospette.

Non rilasciate mai informazioni al telefono e non comunicate mai a nessuno i vostri codici di sicurezza o altre informazioni riservate, solo eventualmente dopo aver verificato l’identità del vostro interlocutore.

Digitate sempre l’Url del sito della vostra banca direttamente nel browser.

Un ulteriore pericolo per la sicurezza e integrità di dati bancari è costituito dal malware: con il termine malware si intende un software maligno (virus/worm) che può essere installato a insaputa del proprietario sui dispositivi utilizzati per accedere al sito della banca.

Attraverso tali software eventuali malintenzionati possono compromettere la sicurezza delle informazioni e rendere instabili e insicuri i dispositivi.

Occorre dunque tenere sempre aggiornati il sistema operativo, i programmi antivirus e altri software o app presenti sui vostri dispositivi ed evitare assolutamente di installare app di dubbia provenienza o disponibili su store non ufficiali.

Quali possono essere allora le buone regole per comportamenti virtuosi?

Controllate spesso la vostra situazione e verificate di frequente i movimenti del vostro conto corrente e delle vostre carte di pagamento, ormai è possibile farlo ogni volta che volete online o dall’app.

Proteggete i vostri dispositivi aggiornando il vostro programma antivirus e il sistema operativo, non lasciate incustoditi i dispositivi portatili, tablet e cellulare e se possibile non memorizzate le vostre password sul browser, password che è assolutamente utile aggiornare con grande frequenza.

Conservate con cura i codici di accesso alla vostra banca come conservereste le chiavi di casa vostra, non consegnateli a nessuno e soprattutto non date mai seguito a email o telefonate che richiedano di inserire o comunicare informazioni personali come i codici di sicurezza o dati delle carte di credito.

Per potersi difendere in maniera adeguata dalle insidie delle truffe sul web e poterle riconoscere in anticipo bisogna innanzitutto essere consapevoli dei meccanismi con cui esse operano e la prevenzione è la migliore arma per difendersi dalle frodi, di qualunque tipologia.

E sono i comportamenti ad avere il ruolo determinante: prendete il tempo necessario per i controlli appropriati prima di rispondere a qualsiasi comunicazione e sappiate che la vostra banca non vi chiederà mai di comunicare, inserire o confermare dati personali, password o numeri di carta di credito via email, sms, telefono o sui social.

Se avete una minima esitazione su ciò che vi viene chiesto, qualunque sia la modalità, voglio citare, a conclusione, J.K. Rowling da Harry Potter e la camera dei segreti che suggeriva “nel dubbio, vai in biblioteca”.

Ecco, nel dubbio andiamo in banca.

La Direttiva europea 2014/65/UE e la tutela degli investitori

Fabio Salsa
Consulente finanziario

Il prezzo è quello che paghi. Il valore è quello che ottieni

Warren Buffett

La nuova direttiva europea che disciplina i mercati degli strumenti finanziari (Direttiva 2014/65/UE), nota come MiFID II, dall’acronimo inglese di Markets in Financial Instruments Directive, entrata in vigore Il 3 gennaio 2018, ha introdotto numerose e importanti novità nel mondo normativo dell’industria della finanza a tutela dell’investitore.

Mi concentrerò in particolare sulle novità che regolano la consulenza finanziaria tralasciando quelle riguardanti i mercati sebbene anche queste siano particolarmente importanti: per sintesi e spero per maggior chiarezza ho individuato quattro elementi di particolare interesse sui quali porre la nostra attenzione.

LA CONSULENZA FINANZIARIA E I POTENZIALI CONFLITTI DI INTERESSE

Il legislatore europeo ha finalmente deciso di regolamentare il potenziale conflitto di interessi rappresentato dalla presenza di accordi di retrocessione delle commissioni di uno strumento finanziario, come ad esempio i fondi di investimento, fra il soggetto produttore dello strumento (società di gestione del risparmio) e il soggetto distributore/collocatore dello strumento finanziario stesso, cioè la banca.

Il diritto del soggetto che colloca il fondo di avere retrocessa a suo favore una parte delle commissioni di gestione è stato disciplinato prevedendo due modalità ben distinte di svolgimento della consulenza finanziaria.

La prima modalità, definita come consulenza indipendente, più diffusa in paesi come Inghilterra, Svezia, Danimarca, prevede che il cliente debba pagare come corrispettivo del servizio ricevuto il solo costo della commissione di consulenza direttamente alla società che lo eroga, la banca.

In questa modalità al cliente non possono essere attribuiti i costi dei prodotti utilizzati, ad esempio rappresentati dalle commissioni di gestione dei fondi, poiché sostiene già il costo del servizio di consulenza.

Nella seconda modalità, definita come consulenza base, che è quella prevalente in Italia, Francia e Germania, il cliente non paga una commissione di consulenza ma sostiene interamente il costo del prodotto o dello strumento finanziario utilizzato, parte di questo costo verrà retrocesso alla società che eroga la consulenza.

Occorre dunque molta attenzione da parte dell’investitore nel verificare che in ragione della tipologia di consulenza scelta con la propria banca i due costi, della consulenza e del prodotto, non si vadano a sommare poiché la normativa esclude questa ipotesi proprio a tutela dell’investitore.

Invito dunque il lettore a riflettere su quale tipo di consulenza ha acquistato dalla sua banca e se rappresenta quella che a lui corrisponde meglio.

PRINCIPIO DI ADEGUATEZZA

Il principio di adeguatezza è il secondo importante elemento di cambiamento introdotto dalla normativa MiFID II e costituisce il principio che deve guidare gli intermediari nel raccomandare strumenti finanziari adeguati al cliente in relazione ad una serie di parametri che ne definiscono in sintesi il cosiddetto profilo finanziario.

La normativa prevede cioè un obbligo di controllo per il quale la banca deve verificare l’adeguatezza del prodotto finanziario proposto al cliente in termini di rischio/rendimento, non soltanto riguardo il singolo strumento ma riguardo l’intero portafoglio del cliente.

La corretta valutazione dell’adeguatezza degli investimenti ha richiesto una revisione dei questionari di profilazione del cliente, una revisione cioè di quelle interviste al cliente che ne definiscono, in base alle risposte, un profilo finanziario in ordine agli obiettivi del cliente, al suo orizzonte temporale, alla sua propensione al rischio e alle sue aspettative di rendimento.

La nuova normativa ha imposto una valutazione obbligatoria periodica della tolleranza al rischio dell’investitore, della sua capacità di sostenere perdite, delle sue conoscenze ed esperienze in materia di investimenti finanziari.

Invito dunque il lettore a ricordare se e con quale frequenza ha condiviso con il suo consulente finanziario il suo profilo, se ha cioè consapevolmente dichiarato tutto quanto è richiesto alla banca conoscere per svolgere una corretta attività di consulenza.

PRINCIPIO DI IDONEITA’

Per il principio di idoneità gli intermediari finanziari hanno obbligo di garantire che il personale addetto alla consulenza abbia le necessarie competenze per prestare questo servizio e che queste competenze siano certificate da un percorso di formazione periodico e obbligatorio con requisiti standard per tutto il settore.

Questo obbligo si concretizza da parte della banca con una attività di formazione a frequenza annuale che si conclude con un esame di idoneità, cosiddetta certificazione Mifid, che abilita il consulente e rende conforme la sua attività alla normativa.

Invito dunque il lettore a scoprire del proprio consulente finanziario le certificazioni di competenze e le iscrizioni agli albi professionali che lo qualificano e lo abilitano all’attività di consulenza (ad esempio da un profilo pubblico, dal sito di vigilanza e tenuta dell’albo dei consulenti finanziari www.organismocf.it, da un profilo Linkedin).

OBBLIGO DI TRASPARENZA SUI COSTI

Il quarto elemento di grande interesse introdotto dalla normativa MiFID II è rappresentato dall’obbligo di trasparenza sui costi dei prodotti e dei servizi finanziari: la normativa europea impone che tutti i costi vadano rendicontati nel dettaglio al cliente distinguendo tra costi del servizio, costi associati al prodotto e commissioni di retrocessione.

La rendicontazione deve esplicitare sia in termini percentuali che in valore assoluto, secondo uno standard preciso, tutti i costi sia in una fase informativa ex-ante l’operazione da valutare (informativa una tantum) sia in una fase ex-post che invece è periodica e con frequenza obbligatoria annuale (cosiddetto report dei costi).

Ex ante il cliente deve ricevere l’informazione se la consulenza viene effettuata su base indipendente o meno e deve ricevere una serie di informazioni sugli strumenti che comprendono le strategie di investimento proposte e le avvertenze sui rischi ad esse associati.

L’informativa ex-post, il cosiddetto report costi, con cadenza almeno annuale, dovrà fornire dettaglio dei costi sostenuti relativamente ai singoli prodotti e al portafoglio complessivo.

Oltre al report dei costi è previsto l’invio al cliente, almeno su base trimestrale, di una comunicazione che includa il dettaglio degli strumenti d’investimento.

Invito dunque il lettore a recuperare e a rileggere l’ultimo report costi ricevuto dalla propria banca, potrebbe scoprire cose certamente interessanti, forse addirittura sorprendenti.

Il buon cibo per la buona causa

Primavera gialla, arancione o rossa? Nell’attesa di tempi migliori, prepariamoci a ricevere nuovamente gli amici a cena, imparando nuove ricette eseguite dal vivo da quattro chef.

Martedì 30 marzo, ore 18.30Dalla laguna con amore. Caterina Schiavon ci condurrà alla scoperta di due ricette tipiche della cucina veneziana.

Martedì 13 aprile, ore 18.30 Roselline in tavola. Marco Jacod ci presenterà una carrellata veloce e spettacolare di preparati a forma di rosa.

Martedì 27 aprile, ore 18.30Pasta estiva. Giulio Martellini ci porterà nel mondo della cucina profumata.

Martedì 11 maggio, ore 18.30Bocconi di felicità per carnivori e vegetariani. Ernesto Chiabotto ci farà scoprire una cucina semplice e saporita, per gli amanti della “ciccia”, del pesce e delle verdure.

Come funziona?

  • Con un contributo minimo di 20 euro, potete partecipare a uno dei quattro incontri
  • Con un contributo minimo di 50 euro, potete partecipare a tutti gli incontri proposti

Come aderire all’iniziativa? Mandate un’email a claudio.mellana@hotmail.it e seguite le istruzioni per il bonifico (siate generosi, mi raccomando!)

Cosa succede dopo? Riceverete via email le istruzioni per partecipare: ingredienti necessari, pentole e stoviglie da predisporre, piccola storia dei piatti proposti, link per accedere all’incontro.

Quel che ancora oggi può dirci Pirandello…

Roberto Alonge
Già professore di Storia del Teatro e
Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Torino

        Curioso destino, quello di Luigi Pirandello, massimo drammaturgo mondiale del Novecento, contemporaneamente esecrato e idolatrato per ragioni fittizie e tutte filosofiche. Da un lato il rifiuto netto da parte della cultura accademica, a lungo egemonizzata da Benedetto Croce, il quale, da buon filosofo, giudicava paccottiglia para-filosofica gli spunti riflessivi dell’opera pirandelliana, che veniva pertanto respinta in blocco, condannata proprio per quell’imperdonabile peccato originale. E dall’altro lato, la tenaglia che si chiude con il filosofo anti-crociano Adriano Tilgher, il quale, a partire dal 1922, fa pernio proprio sugli gli elementi filosofici interni all’opus pirandelliano per offrirne una completa rivalutazione, che finisce peraltro per imprigionare lo stesso Pirandello, in diversi dei suoi ultimi copioni sicuramente vittima del pirandellismo, l’insieme di quegli insopportabili apriscatole critici per fortuna oggi quasi totalmente scomparsi (la Vita e la Forma, la maschera il volto, il relativismo, uno nessuno centomila ecc. ecc.).

        In ogni caso, a liberare Pirandello da questa assurda morsa filosofica ci ha pensato la critica d’ispirazione marxista che, dagli anni Settanta del Novecento, ha puntato a ricuperare l’immagine di un Pirandello coscienza della crisi, autore borghese ma critico della società borghese, giocato in contrapposizione ai facitori di miti distorcenti e regressivi (in primis D’Annunzio, ovviamente). Il pessimismo fecondo di Pirandello di contro all’ottimismo mistificatorio di D’Annunzio, e pazienza se in realtà la biografia dice che l’Agrigentino era un convinto fascista, non meno del Vate… Resta il fatto che questo grumo di verità ermeneutica è un dato certo, autentico, ormai assimilato, su cui si può contare. Sì, Pirandello – nonostante i suoi occhiali graduati di forte conservatorismo, o forse proprio a causa loro, perché gli opposti estremismi talvolta si toccano e si sovrappongono – ci aiuta a leggere le devastazioni della società del capitale, forse più nella sua narrativa (per esempio nella pregnanza incisiva di talune novelle) che nel suo teatro, ma questo è tutto?

        Direi di no, direi che c’è un intero continente, quasi ancora interamente da scoprire, e questo riposa indubitabilmente sulle pièces, che potrebbero fare dunque la fortuna dei teatranti, se i teatranti avessero un po’ più di gusto e di coraggio. A differenza degli altri tre grandi drammaturghi a cavallo tra Otto e Novecento (Ibsen Strindberg Čechov), nei suoi testi teatrali Pirandello non presenta il protagonista borghese nell’interezza della sua esistenza, pubblica e privata, sociale e individuale, professionale e sentimentale. I suoi personaggi possono anche essere “avvocati”, ma non ci parlano mai delle problematiche lavorative, delle loro ossessioni di carriera, come avviene ad esempio al marito di Nora di Una casa di bambola. Il teatro, per Pirandello, è unicamente l’incontro-scontro tra il maschile e il femminile, ma a un orizzonte più ristretto corrisponde – occorre riconoscerlo – una capacità di scandaglio assai penetrante. L’Agrigentino ha l’abilità e la tenacia rara di infilare il bisturi là dove l’uomo e la donna s’incrociano e si contrappongono, sa mettere a fuoco come pochi il desiderio della donna e il desiderio dell’uomo. Sciascia ha detto che Pirandello è l’autore più femminista della letteratura italiana, e mi pare che abbia ragione. Dietro la barriera protettiva di un linguaggio molto discreto, quasi reticente, forse persino casto, Pirandello riesce a indagare il mistero del piacere femminile, la sua difficoltà, tra frigidità e scatenamento oblioso dei sensi (da Il giuoco delle parti, a Vestire gli ignudi, da Trovarsi a Non si sa come).

Per Pirandello, però, il desiderio femminile è principalmente quello della maternità. A questo proposito c’è un testo pirandelliano da sempre dimenticato, rimosso, che in tutta la mia vita accademica ho continuamente (e inutilmente) proposto a tutti i registi che conosco, grandi piccini e mezzani (Ronconi mi ascoltò e ci fece sopra un laboratorio, ma si fermò lì, senza trasformarlo in vero spettacolo), ed è L’innesto, storia di una moglie borghese, Laura Banti, che nonostante sette anni di matrimonio, non ha figli, perché il marito è sterile. Violentata da un bruto in un parco romano, resta miracolosamente incinta, e combatte una dura battaglia per tenersi il figlio, trionfando sul marito che vorrebbe invece l’aborto. Tralascio per spirito garantista il sospetto che, in mancanza d’inseminazione artificiale, questo stupro, la vittima, se lo sia un po’ cercato, magari inconsciamente, poco importa, e dico che comunque risultano un po’ miracolose, cioè statisticamente assai improbabili, siffatte fortunate coincidenze: basta un solo incontro sessuale perché sia garantita la gravidanza… Non è infatti l’unico caso del teatro pirandelliano: la stessa cosa avviene in altri due testi. Certo – direte voi – tre casi su 42 testi complessivamente scritti da Pirandello sono poca cosa, corrispondono a un indice del 7.14%, ma se li rapportiamo ai testi il cui plot preveda una nascita, abbiamo un rapporto di 3 a 9, cioè un indice rilevantissimo del 33.3%. Meccanismi di questo genere si ritrovano nella Bibbia, per esempio nell’episodio delle figlie di Lot. Un modo però di ribadire che il sesso non costituisce valore in sé, non ha autonomia, è puramente al servizio del dovere procreativo. Tutto questo può stupire in un intellettuale come Pirandello, autore dichiaratamente laico, ma l’inconscio, si sa, è molto più possente del nostro conscio, e nell’inconscio stanno, ben radicati, i convincimenti assimilati nell’infanzia e nell’adolescenza.

L’originalità de L’innesto è dato però dal fatto che il personaggio ha una duplice valenza: c’è in lei la brama della maternità sino alla ferocia, ma c’è anche una morbida capacità seduttiva. Dopo il primo atto che racconta lo stupro, la coppia si ritira nella villa di campagna per un intero mese, sorta di seconda luna di miele che nasconde una progettualità inquietante (far credere al marito di essere lui il padre del bimbo nascituro), per la quale Laura Banti dispiega un’incantevole affascinante sensualità, che dovrebbe interessare qualche attrice brava e ambiziosa.

Assai diverso, invece, il desiderio maschile, decisamente trasgressivo, ma sempre molto nascosto, con mirabolanti occultamenti che hanno impedito sin qui alla critica pirandelliana di vedere tutto il marcio che si annida in Danimarca. I Sei personaggi sono un’assoluta oscenità trionfante, che però nessuno riesce a percepire perché schermata dal marchingegno barocco del cosiddetto teatro nel teatro. Due, essenzialmente, le ossessioni primarie: la pedofilia (abbastanza visibile nei Sei personaggi, ma più sottile e più intrigante in molte novelle dell’ultima stagione del nostro), e una fantasia torbida che amo definire triangolo perverso, costituito da due uomini e una donna, dove il secondo uomo può anche essere rappresentato, nei casi più estremi, da un più ampio gruppo di uomini violenti, una sorta di branco, come diremmo oggi, che molesta la donna sotto gli occhi del suo uomo, apparentemente in sofferenza, ma segretamente in eccitazione erotica (e qui, sempre in ordine cronologico, almeno quattro i testi di riferimento, Il giuoco delle parti, Sei personaggi, La signora Morli, una e due, Lazzaro). Ovviamente non sono fantasmi solo pirandelliani, appartengono in pieno a espressioni alte della cultura occidentale, che si è sempre presa il diritto di dire anche verità sgradevoli, benché politicamente non corrette. Per la pedofilia (intrecciata all’incesto) si può partire dal decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio, là dove tratta degli amori di Mirra. Per il triangolo perverso forse il mito fondatore è Tartufo di Molière, ma il filo rosso passa per The Country Wife di William Wycherley e arriva a Le venin (1927) di Henry Bernstein, autore ebreo, fatalmente attento alle novità di quella scienza ebraica che è la psicanalisi. In verità scrittore grossolano, ma che ha indubbiamente il merito storico di aprire la scena europea alle tematiche della psicanalisi, inventando situazioni incentrate sulle più torbide articolazioni dell’animo umano, sugli istinti oscuri della perversione. La critica francese ne prende atto e comincia per tempo a utilizzare il termine sessualità, al posto del vecchio sostantivo amore, sebbene cerchi a sua volta di proteggersi, innalzando un’aggettivazione che definisce via via gli intrecci di Bernstein come perversi, morbosi, malsani, torbidi.

Particolarmente illuminante – per il nostro discorso su Pirandello – quanto accade a proposito della pièce intitolata Le venin, il cui protagonista maschile, apparentemente geloso al massimo grado, costringe la propria amante, Françoise, a confessargli di avere avuto rapporti con ben cinque uomini; dopo di che la colpisce con un potente schiaffo, salvo chiudere l’atto facendo l’amore con lei. In realtà – come comprende subito la critica francese del tempo – non è affatto sicuro che sia andata davvero così. È probabile che la donna sia stata costretta a inventarsi tradimenti mai avvenuti, e solo per soddisfare i gusti bizzarri del suo uomo, il quale si eccita – esattamente come Guido Venanzi del pirandelliano Il giuoco delle parti (1918) – a immaginarla oggetto sessuale nelle mani di altri uomini. Il bello è che quando la sua pur amatissima Marta Abba, nel 1928, sembra interessata al personaggio di Françoise, e medita di poter mettere in scena Le venin, il Maestro risponde con stupore e con viva indignazione, osservando che il personaggio “è soltanto una bestia lasciva e spudorata, la quale scazzottata dall’amante dopo averla costretta a raccontargli certe turpi enormità con cinque uomini, alla fine conclude l’atto con lui in una maniera che non ti dico”.

Il che significa che Pirandello non si rende conto di aver scritto, lui, un decennio prima di Bernstein, con Il giuoco delle parti, la stessa storia, ferma restando la diversa qualità di scrittura, essendo Le venin opera stilisticamente corriva, perché troppo esplicita, eccessiva, gridata, ma di cui il nostro precorre motivi e sviluppi. Non solo, Pirandello si rivela più avanti di Bernstein, più audace: il suo Guido non ha bisogno della foglia di fico della falsa gelosia del protagonista di Bernstein: rimane dietro la porta a origliare e a guardare dal buco della serratura la sua donna insidiata da quattro giovinastri. Il pubblico italiano del tempo (ancora molto pre-freudiano) non capì, non accettò e fischiò sonoramente Il gioco delle parti, condannando per un cinquantennio al silenzio quello che è (forse) il capolavoro assoluto di Pirandello, sino alla riscoperta operata da De Lullo-Valli-Falk nel 1965. S’intende che Pirandello procede per forza di intuizione poetica, se posso usare questa espressione. L’Agrigentino è un intrepido esploratore del cuore di tenebra dell’animo umano, ma lo è a sua insaputa, come accadde al famoso ministro berlusconiano, cui fu regalato un appartamento con vista sul Colosseo di cui non aveva contezza. Pirandello è un gentiluomo del Sud, assai conservatore, omofobo e persino anti-ebraico, che conosce poco Freud, di cui parla male, ma poco importa. Come ha scritto lo stesso Freud, gli artisti “hanno la sensibilità necessaria per percepire negli altri i moti reconditi della psiche e il coraggio di lasciar parlare il proprio inconscio”.

        Spero di essere stato chiaro. In ogni caso, per eventuali approfondimenti, mi permetto di rimandare al mio Discesa nell’inferno familiare. Angosce e ossessioni nel teatro di Pirandello (Torino, Utet Università, 2018), e, per un allargamento della prospettiva – al di là di Pirandello, che coinvolga l’intero orizzonte della cultura occidentale – al mio recente Dacci oggi il nostro desiderio quotidiano (Bari, Edizioni di Pagina, 2021).

La peste

Paolo Bertinetti
Già preside della Facoltà di Lingue dell’Università di Torino

William Shakespeare incominciò a scrivere Romeo e Giulietta prudentemente chiuso in casa. Fuori imperversava la peste e i teatri, come sempre si faceva a Londra durante le epidemie, erano chiusi. Gli assembramenti, chiara causa di contagio, erano assolutamente da evitare (anche se il Cardinal Borromeo non lo sapeva e con la processione organizzata per chiedere l’intercessione divina collaborò drammaticamente alla diffusione dell’epidemia in quel di Milano nel 1630). Quell’anno, a Londra, la peste passò abbastanza rapidamente e con meno danni di altre volte, “soltanto” 15.000 morti. Non fu letale come era stata quella del 1563, che a Londra fece 30.000 morti, circa un sesto della popolazione, e che nella primavera successiva, quando arrivò a Stratford, la cittadina in cui proprio in quell’anno Shakespeare era nato, portò alla tomba quasi un terzo dei suoi abitanti. Cure e medicine non ce n’erano: l’unica misura era quella di stare chiusi in casa; e sperare in Dio (senza fare processioni).

Per decenni Londra e l’Inghilterra furono colpiti dalla peste. Tremenda fu quella del 1603, quando i morti furono 36.000, più di un sesto della popolazione. E un’altra seguì, nel 1606, un’altra ancora nel 1608-09. Ma forse la più micidiale, almeno tra quelle di cui disponiamo maggiori dati, fu quella del 1665 e 1666, che all’epoca molti attribuirono a una sorta di punizione divina dovuta al fatto che era stata restaurata la monarchia e che Sua Maestà era amico dei cattolici (per la verità che la peste, o qualche altra epidemia, fosse un flagello di Dio, qualcuno lo diceva sempre; e nel recente passato qualcuno l’ha detto a proposito dell’AIDS).

Il resoconto più straordinario della micidiale pestilenza del 1665 è il Diario dell’anno della peste di Daniel Defoe, che all’epoca aveva soltanto cinque anni e che quindi diede forma romanzesca (seppure sulla base della documentazione esistente) alle vicende di quell’annus horribilis. Un finto diario, insomma, attribuito a un personaggio di fantasia che raccontava in prima persona la sua esperienza personale all’interno della tragedia che aveva colpito la città.

C’è tuttavia un vero diario che racconta la peste del 1665, quello di Samuel Pepys, un importante funzionario dell’amministrazione inglese. Pepys, figlio di un sarto, era nato a Londra nel 1633 e aveva frequentato l’università a Cambridge, dove si era laureato nel 1654. Aveva incominciato a scrivere il suo diario il 1° gennaio 1660, pochi mesi prima di accompagnare suo cugino nei Paesi Bassi, in una missione che aveva lo scopo di organizzare il ritorno in Inghilterra, e sul trono, di Carlo II. Immediatamente fu compensato con un buon posto presso il Navy Board, quello che possiamo considerare il Ministero della Marina, ottenendo il primo dei posti ben remunerati che ricoprì nel corso degli anni.

Il suo diario è ricco di pettegolezzi sull’ambiente di corte e altrettanto ricco di annotazioni sul proprio carattere e sulle proprie abitudini. Non si nasconde dietro la facciata del bravo funzionario e del bravo marito: “la cosa più importante per me è il mio piacere personale, non posso rinunciare al vino e alle donne”. Verissimo: ha, ad esempio, un’avventura extra-coniugale poco prima dello scoppio della peste, si mostra pentito, ma poi, subito dopo, ricomincia a cercare “il piacere personale”.

Una cosa che lo preoccupa, adesso che è chiaro che l’epidemia si è scatenata, è il fatto di avere comprato da poco una bella parrucca con cui esibirsi nelle occasioni mondane: e se i capelli con cui è fatta, si chiede, fossero di persone che avevano la peste? Le notizie sull’epidemia sono però quasi nascoste nel resoconto dei suoi impegni di lavoro, delle sue cene, dei suoi incontri mondani. Il 7 giugno nota con una qualche preoccupazione di avere visto sul portone di tre case una grande croce rossa con su scritto “Dio, abbi pietà di noi!”. Il 29 giugno annota che il re e la corte stanno facendo i preparativi per andarsene da Londra e rifugiarsi lontano dal cuore del contagio. Il 31 luglio registra il fatto che gli affari vanno bene, anche se la situazione è piuttosto problematica, dato che nell’ultima settimana ci sono stati 1800 morti. Oculato amministratore, sistema una serie di pratiche in corso, ma senza precipitazione; per prudenza fa testamento, ma continua a trattare con ironia gli impegni mondani della moglie; e per coerenza con il suo essere dedito al “piacere personale” non si sottrae all’apprezzamento delle donne e del buon cibo.

Annota con distacco la malattia o la morte di conoscenti e parenti (tra cui il suocero), ma non si lascia turbare più di tanto dal rischio di contrarre anche lui la peste. Né si commuove per la scomparsa delle molte persone che da un giorno all’altro non vede più, pur riflettendo sul fatto che spesso gli accade di dover notare che il tale, o il tal altro, sono ancora in giro, che la peste non li ancora portati via. Pepys era un uomo concreto. Il commento finale, quando la peste finì, fu di soddisfazione: ma più ancora che per la fine dell’epidemia, per il fatto che grazie agli affari conclusi nel periodo aveva triplicato il suo conto in banca. Come, ci si augura presto, potrà dire la Pfizer.

Di tutt’altro tono è il libro di quel formidabile giornalista di Daniel Defoe, che tre anni dopo aver pubblicato Robinson Crusoe diede alle stampe un libro intitolato Diario dell’anno della peste. Defoe fingeva di essere l’editor (come Manzoni per i Promessi sposi) del diario di un certo H. F., londinese, di mestiere sellaio, che era sopravvissuto alla peste del 1665. Il lunghissimo sottotitolo spiega che si tratta di un diario “contenente osservazioni o testimonianze sugli avvenimenti più notevoli, pubblici e privati, che accaddero a Londra durante l’ultima grande apparizione della peste nel 1665” (la parola dell’originale inglese, qui resa con “apparizione”, suggerisce l’idea di una manifestazione di carattere sovrannaturale, come potrebbe essere una punizione divina). Nell’arco di quei pochi mesi ufficialmente ci furono 70.000 morti, ma H. F. sostiene che furono 100.000. Sarebbe come se a Torino morissero per Covid-19 più di 200.000 persone.

Il libro di Defoe è, in fondo, un romanzo storico: ci sono pagine e pagine che riportano i dati dei bollettini parrocchiali che registravano i decessi, ci sono i decreti emanati dalle autorità cittadine (non da quelle “statali”: il re e la corte, di cui Pepys aveva registrato i preparativi di fuga, si erano rifugiati a Oxford), ci sono notizie tratte dai diari di Pepys e di un altro illustre letterato, John Evelyn, c’è insomma il dato storico recuperato dal giornalista Defoe. E poi c’è l’invenzione narrativa dovuta al romanziere Defoe, che a partire da quelle testimonianze creava l’effetto di un “vero” resoconto, di una cronaca “veritiera” di quella terribile pestilenza.

Le somiglianze con il presente sono, diciamo così, istruttive. Troviamo, innanzitutto, l’elogio dei medici, che “concorsero al salvataggio della vita di molti” londinesi, rischiando “a tal punto la vita da perderla al servizio dell’umanità”. Alcuni medici, pochi, (come da noi successe nella primavera scorsa) “abbandonarono i pazienti all’epidemia” fuggendo fuori Londra; ma quando tornarono in città vennero giustamente chiamati disertori.

Nel Diario troviamo, soprattutto, la descrizione delle successive fasi del contagio. All’inizio ci fu l’esodo di molti dalla City: esodo autorizzato, in quanto il Sindaco diede un certificato di buona salute ai richiedenti che sembravano esserlo. Alcuni lo sembravano soltanto; e portarono il contagio fuori città. Poi si fece strada, volontariamente, l’abitudine a non uscire di casa la sera, ma questo non poteva certo bastare. Infine, con l’esplosione dei casi di peste, le autorità della City decretarono che i malati e i parenti dei malati restassero chiusi in casa. C’era un precedente. In occasione della peste del 1603 il Parlamento aveva deliberato, ricorda Defoe, “di chiudere la gente in casa”. E così si fece nel 1665. Boris Johnson, non sapendolo, per una decina di giorni, in nome delle tradizioni inglesi, straparlò sulla libertà di circolazione e di raduno nei pub, nei ristoranti, nei cinema e nei teatri. Come si diceva prima, già ai tempi di Shakespeare, per evitare il contagio, i teatri venivano chiusi. Ma Boris non lo sapeva. Poi, forse grazie anche alla sua esperienza personale, ha pensato bene di dare ascolto ai medici e agli scienziati che, pur non essendosi laureati in Storia come lui, quei lontani fatti storici li ricordavano. E che gli dicevano come bisognava procedere per contenere prima e per sconfiggere poi il contagio.

Ma torniamo al Diario di Defoe e a quel micidiale imperversare della peste. La chiusura in casa dei malati e dei loro familiari era vista con angoscia. “All’inizio della moria” le autorità cittadine misero dei guardiani davanti alle porta delle case “infette”, ma spesso alcuni dei guardiani venivano corrotti, altri malmenati: e così i parenti degli appestati potevano uscirsene di casa e scappare fuori città. Molti di loro non sapevano di essere malati e trasmisero il morbo ovunque si rifugiarono. Poi, in poco tempo “ogni commercio, eccetto quello riguardante i mezzi di sussistenza, subì un arresto totale”; in ogni caso all’estero non volevano saperne di merci inglesi e le navi dirette a Livorno e Napoli, ad esempio, vennero mandate in Turchia.

Le pagine più angosciate non sono però quelle dedicate ai commerci, ma quelle dedicate alla condizione dei poveri; “non avevano infatti né cibo, né medicine, né medico, né farmacista che si occupasse di loro, né infermiera che li assistesse”. E tuttavia un moto caritatevole ci fu: per aiutarli furono raccolte somme ingenti grazie alle offerte dei mercanti più timorati di Dio. Il morbo, però, non trovava ostacoli. Tucidide racconta che durante la peste del 430 A. C. i medici ateniesi erano disarmati di fronte a una malattia a loro sconosciuta. Quelli londinesi ne sapevano di più – e la raccomandazione, insieme a quella di restare in casa, era di lavarsi bene le mani. Ma non molto di più.

C’è però un punto del Diario che particolarmente colpisce. Quando, superato il picco, il numero dei morti discese fortemente, “la popolazione divenne così temeraria che considerò il morbo nulla più che una comune febbre”. Molti cominciarono ad andare in giro dappertutto e il contagio di nuovo riprese con forza. Abbassare la guardia, insegnamento del tutto ignorato dai nostrani politici populisti e da illustri epidemiologi al loro servizio, fu una cosa disastrosa. Se Dio vuole (e per Defoe è proprio la Divina Provvidenza che lo vuole) finalmente la peste sparì. Ma ancor prima erano spariti i santoni e i ciarlatani vari che offrivano rimedi inesistenti e ritenevano inutili le raccomandazioni dei medici. Da noi, per lungo tempo, santoni e ciarlatani vari hanno continuato a imperversare. E alcuni di loro ancora non hanno smesso di propagandare le loro imbecilli credenze.


Quella che segue è una parte dell’intervista su “Albert Camus e La peste” che la professoressa Pierangela Adinolfi, del Dipartimento di Lingue dell’Università di Torino, ha rilasciato a UniToNews

Di cosa parla il capolavoro di Camus? E perché è tornato prepotentemente alla ribalta?

Il capolavoro di Camus, La peste, racconta il dilagare di un’epidemia di peste che si manifesta in un tempo non precisato degli anni Quaranta del secolo scorso, in una città dell’Algeria, Orano.

In effetti, a partire dal mese di marzo (del 2020) il libro non solo è tornato alla ribalta, se così si può dire, ma ha avuto una vera e propria impennata delle vendite in Italia e all’estero.

Il primo motivo di questo rinnovato interesse discende dalla trama e dalla struttura del testo, costruito per creare la rappresentazione di uno stato di allarme che si dispiega in tutte le sue fasi, a partire dalla sottovalutazione e dall’incredulità iniziali fino ad arrivare, attraverso la serrata analisi psicologica dei personaggi che ripropongono la vasta gamma di emozioni, sentimenti e passioni dell’essere umano, alla constatazione di una possibile via d’uscita. Tutte le dinamiche interpersonali, affettive, politiche, economiche, che si verificano nella situazione di epidemia e quarantena sono messe in campo. Camus parla dell’esilio, che in questo caso è la separazione dagli affetti, la privazione della libertà, parla della paura della morte e dell’impotenza umana di fronte alle catastrofi naturali. Parla anche del coraggio, della consapevolezza, cui si perviene soltanto con il dubbio circa le verità acquisite, della giustizia, della risposta individuale di fronte a un male collettivo e della speranza, una speranza che può riportare ad “essere felici insieme agli altri”. Tutti gli aspetti presi in esame sono considerati dal punto di vista prettamente umano e questa è una peculiarità di Camus.

Il secondo motivo pone le sue radici nello spessore filosofico-esistenziale del testo. Il morbo della peste, come è noto, è la rappresentazione simbolica del Male. Pubblicato nel 1947, a ridosso della fine della seconda guerra mondiale, il romanzo di Camus mette in scena la peste quale metafora del nazional-socialismo appena sconfitto, ma anche in quanto emblema di ogni tipo di male che in ogni epoca storica è in grado di minacciare l’umanità. Il problema del Male, che assume anche tratti metafisici, è il grande problema di fondo che caratterizza lo scenario de La peste. In risposta alla consapevolezza dell’esistenza del male, Camus crea il docteur Rieux, il personaggio adatto a veicolare la forza del suo pensiero. Rieux è colui che sa opporsi, attraverso la razionalità della scienza e la tenacia della scelta individuale, all’assurdità del male. Per mezzo del confronto di Rieux con gli altri personaggi, Camus, accanto al problema del Male, affronta il problema della morte, della sofferenza inutile degli innocenti, della religione cristiana e di Dio. Camus sottolinea con forza la necessità del dialogo permanente tra atei e cristiani. Il cristiano chiama “Dio” ciò che non capisce, mentre l’ateo lo definisce “Assurdo”. Entrambi, però, condividono la stessa tragica condizione di vita terrena, entrambi sono sottoposti al Male. È, pertanto, nella prospettiva della lotta contro il Male, della Rivolta, che tutti i “fratelli” umani si devono stringere sotto il segno della Solidarietà. La Caritas cristiana si tramuta in solidarietà umana e Rieux, grazie alle parole dell’amico Tarrou, assume i caratteri del “santo laico”, del “tipo” d’uomo capace di combattere, all’interno della rivolta collettiva, il male e l’assurdo.

Il terzo motivo concerne più da vicino la percezione del lettore che oggi rilegge La peste. Della facilità con la quale si riesce oggi a immedesimarsi negli avvenimenti descritti ne La peste, si è detto prima; con la differenza che la situazione letteraria è molto più circoscritta, poiché interessa una sola città, mentre la nostra condizione ricopre ormai una dimensione estesa a livello mondiale. Ciò che secondo me risulta maggiormente interessante trattenere dalla lettura de La peste è proprio l’impianto filosofico – esistenziale, traboccante di significato, sotteso al romanzo. Ciò che Camus ha trasmesso con la sua narrazione.

Anche prima di oggi, La peste custodiva il suo alto contenuto di senso, quindi non è l’attualità che dà valore al libro, bensì il contrario. Si dovrebbe, pertanto, ribaltare la prospettiva: non sono i libri a essere attuali, ma sono gli eventi storici, fausti e infausti, che si ripetono ed è dai libri che possiamo ricavare una lezione di senso, quel senso che secondo La peste è collocato nella solidarietà e nella lotta umana contro l’assurdo.

Cosa ci insegna La peste di Camus alla luce di quello che stiamo vivendo?

La peste di Camus ci insegna sicuramente a non essere complici del male, a recuperare, quindi, dei valori nei momenti di maggiore criticità, a non considerarsi per sempre al sicuro, perché, come scrive Camus nell’epilogo del suo libro, il morbo della peste può celarsi per un tempo a noi sconosciuto per poi risvegliare i suoi ratti e mandarli a morire in una città felice. Può quindi tornare e diffondersi ovunque. Ciò vuol dire che nessuno si può salvare senza la solidarietà dell’altro (pensiamo anche alla situazione europea, ma non solo, che richiederebbe la solidarietà fra gli Stati membri). È ancora possibile essere felici, ma ciò ha senso soltanto se si può essere “felici insieme agli altri “.

Tutto il male del mondo

Marco Chiauzza
Storico

I primi secoli del cristianesimo furono caratterizzati dal fiorire di innumerevoli varianti della nuova fede, e dai dibattiti – spesso feroci – che videro contrapporsi i loro più significativi rappresentanti. Soprattutto nel corso del IV secolo si svilupparono le più importanti fra quelle che più tardi sarebbero state considerate eresie, perlopiù incentrate sulla natura del Cristo e sulla relazione intercorrente fra le persone della trinità divina: dall’arianesimo, al monofisismo, al nestorianesimo, e alle loro sottili e difficilmente distinguibili ulteriori sfumature. Ma prima ancora di quelle discussioni – bizantine per definizione, visto che ebbero luogo nei secoli del tardo impero e in particolare nella sua parte orientale governata da Costantinopoli, l’antica Bisanzio – fra II e III secolo il medesimo mondo romano – ma anche alcuni territori oltre i suoi confini, come quelli dell’impero persiano sasanide – furono percorsi da altri fermenti, noti perlopiù con il nome collettivo di gnosticismo, essi pure spesso ma semplicisticamente ricondotti alla categoria delle eresie cristiane. In effetti, quest’ultima etichetta è almeno parzialmente impropria, perché presuppone una divaricazione di posizioni differenti a partire da un unico insegnamento – quello, reale o presunto, di Gesù di Nazareth -; mentre lo gnosticismo non è tanto un sottoinsieme dell’insieme più ampio costituito dal cristianesimo, ma si configura piuttosto come un altro insieme intersecantesi con quest’ultimo: insomma, non solo non tutto il cristianesimo è gnostico, ma neppure lo gnosticismo si esaurisce integralmente all’interno del cristianesimo. D’altra parte, esso si sviluppa in un’epoca in cui nel mondo religioso romano e mediterraneo si affermano forti tendenze sincretistiche, che portano le diverse credenze religiose a ibridarsi, in molti casi fino a confondersi: sono questi, infatti, gli anni in cui perfino presso alcuni esponenti della dinastia imperiale dei Severi – in particolare le donne della famiglia – vengono venerati insieme le divinità della tradizione greco-romana e quelle importate dall’Oriente, in un panteon variegato in cui a volte non sfigurano neppure personaggi come Mosè e Gesù.

Ma che cos’è, allora, lo gnosticismo? Il nome di questo variegato complesso di correnti di pensiero evoca intanto uno dei concetti fondamentali attorno ai quali esso si struttura, quello di gnosi. In greco quest’ultima parola significa semplicemente “conoscenza”, e ha la medesima radice del latino cognoscere, da cui deriva, appunto, l’italiano “conoscere”. Il primo nucleo concettuale comune a tutte le correnti gnostiche è dunque quello secondo il quale la salvezza oltremondana dell’individuo dipende dalla conoscenza di una serie di dottrine: si salva chi sa. Ma il termine “gnosi” non deve trarre in inganno. Lo gnosticismo non si presenta infatti come una lettura razionalista della religione cristiana – o della religione in generale – fondata sulla convinzione che il fedele debba raggiungere o quantomeno chiarire i contenuti delle proprie credenze grazie a uno sforzo di comprensione intellettuale. La conoscenza che salva lo gnostico è infatti una conoscenza rivelata da quella stessa dimensione superiore e divina cui egli tenta disperatamente di ricongiungersi. Per questo motivo lo gnosticismo è e resta una modalità dell’esperienza religiosa e non può in alcun caso essere considerato una corrente filosofica. Eppure, è innegabile in esso una tendenza – a volte ossessiva – all’elaborazione concettuale delle dottrine, che condusse ogni setta gnostica a elaborare una propria complessa e spesso lussureggiante mitologia, che non trascura di utilizzare ai propri fini parte del patrimonio concettuale elaborato dalla tradizione filosofica precedente e contemporanea.

Ma, una volta precisata l’origine della conoscenza gnostica, quale ne è il contenuto? Si tratta di una domanda cui è impossibile fornire una risposta univoca, data la pluralità e frammentarietà delle diverse sette gnostiche e delle loro credenze, peraltro perlopiù a noi note – come avviene per quasi tutte le “eresie” – attraverso le testimonianze degli avversari che intendevano confutarle, in molti casi, dunque, inficiate da una non nascosta intenzione polemica. Eppure, anche in questo caso, qualche tratto comune può essere individuato. Diciamo che la gnosi è in primo luogo una forma di sentimento religioso: lo gnostico è colui che sente di essere imprigionato in questo mondo ma di non appartenervi, secondo una prospettiva che molti secoli dopo sarebbe stata condivisa anche da certo romanticismo e da certo esistenzialismo. Un’immagine può illustrare efficacemente tale sentimento. Per la maggior parte delle filosofie e cosmologie antiche le sfere celesti – concepite perlopiù non come semplici orbite, ma come sfere reali e fisiche che circondavano la Terra, perlopiù pensata al centro dell’universo – erano l’espressione più alta dell’armonia e dell’ordine divino che reggevano il mondo: non si dimentichi che il termine greco kósmos significa originariamente proprio “ordine”. Al contrario, per molti gruppi gnostici, esse rappresentano invece le pareti concentriche di un carcere che impedisce all’uomo di tornare alle proprie origini celesti. Perché in effetti l’uomo – o meglio l’essere umano, dal momento che alcune sette ne affermano esplicitamente il carattere androgino prima della caduta – partecipa nella sua essenza a una condizione di divina perfezione originaria da cui è precipitato.

Ma quale è stata la causa di tale catastrofe? Come sappiamo, il tema della caduta è ben presente nella tradizione cristiana. Tuttavia, nel libro della Genesi, almeno nell’interpretazione che più ci è familiare, il mondo nel quale viviamo ha una connotazione essenzialmente positiva. Esso è il frutto della sapienza di Dio, che della sua creazione si è compiaciuto: “E Dio vide che ciò era buono”. Di questo paradiso terrestre l’uomo è stato posto al vertice, per governarlo e custodirlo. La caduta sopraggiunge dopo, quando la coppia originaria si ribella contro il proprio creatore, trascinando nell’abisso l’intero creato. Solo da quel momento l’uomo – e tutto il mondo con esso –, perduta l’innocenza originaria, rimane in attesa di un salvatore che possa redimerlo: la frattura provocata dalla tragedia del peccato originale – compiuto da un singolo, ma che ha trascinato l’intera umanità e il cosmo stesso nell’abisso – potrà allora essere sanata nel sacrificio di un solo uomo, Gesù il Cristo, che è però anche Dio incarnato. Per il cristianesimo – almeno nelle sue varianti che sarebbero poi state riconosciute come ortodosse – la caduta è dunque successiva alla creazione, che è originariamente buona e in ogni caso destinata a essere redenta. Ben diversa è invece la visione gnostica, per la quale la creazione è l’effetto della caduta, e quasi si identifica con essa. Anche se – come già detto – la variegata molteplicità delle sette gnostiche ha partorito una altrettanto variegata congerie di miti, nella maggior parte di essi la caduta è connessa a un atto di ribellione originaria, che non è tuttavia compiuto dall’uomo, ma si verifica all’interno del pleroma (in greco “pienezza”). Nella lussureggiante mitologia gnostica, il pleroma è l’insieme armonico e perfetto del dio supremo, radicalmente trascendente, e di una serie di entità divine, o eoni, da esso emanate direttamente, ovvero indirettamente per mezzo di altri eoni (termine che letteralmente significa “epoca” o “evo”, ma che nel contesto della riflessione gnostica indica piuttosto degli stati atemporali di emanazione dal Primo Dio).

Ma si tratta di un’armonia destinata a infrangersi. A un certo momento nel pleroma succede qualcosa, si tratti di un atto di ribellione da parte di uno degli eoni, oppure di una forma di emanazione impura: in ogni caso, da questa frattura nel pleroma si genera un eone corrotto e malvagio, il Demiurgo. Quest’ultimo termine significa letteralmente “colui che lavora per il popolo”, cioè “artigiano”; e all’epoca delle prime sette gnostiche aveva già una plurisecolare tradizione filosofica alle spalle, risalente in ultima istanza a Platone, che in uno dei suoi ultimi dialoghi, il Timeo, aveva ipotizzato l’esistenza di un Demiurgo divino, una sorta di grande artigiano cosmico – il grande architetto o grande orologiaio, come si sarebbero espressi molti filosofi fra Seicento e Settecento, e con loro i Liberi Muratori – che avrebbe plasmato l’universo a partire da una sorta di materia originaria, la chôra (letteralmente “spazio”). Tuttavia, nella concezione gnostica il Demiurgo subisce un radicale capovolgimento assiologico: se quello platonico era un dio buono e sapiente, che nella sua opera di costruzione del cosmo aveva guardato al modello delle idee, paradigmi di razionalità e perfezione; il Demiurgo gnostico è invece un’entità maligna, che produce il mondo materiale quale espressione e quasi effetto collaterale della rottura del pleroma. La creazione gnostica non è dunque la manifestazione, per quanto inevitabilmente imperfetta, di un dio buono e sapiente, bensì il frutto malato di un’entità corrotta. E tale creazione trascina con sé anche l’Uomo primordiale, che dalla sua originaria esistenza pleromatica precipita anch’esso nella cupa e dolorosa prigione costituita dal mondo demiurgico: l’immagine gnostica dell’uomo è quella di una scintilla di luce divina caduta nel fango della materialità, concepita come inesorabilmente malvagia e irredimibile, diversamente dal cristianesimo ortodosso che – non si dimentichi – aveva pur sempre considerato il corpo degno di accogliere la divinità nell’incarnazione del Verbo, e promesso ai fedeli la resurrezione della carne.

Per il fedele gnostico la speranza non è costituita dalla resurrezione della carne – inconcepibile per chi rifiuta il mondo fisico come radicalmente malvagio – bensì dalla possibilità di liberarsi da quel mondo e recuperare la propria perfetta condizione originaria. Ciò è possibile solo grazie alla conoscenza della verità – la gnosi, appunto – trasmessa da una rivelazione divina, mediata da una serie di messaggeri o angeli (ángelos in greco significa proprio “messaggero”) inviati dal dio supremo, il Primo Eone, nel corso del tempo: per gli gnostici cristiani uno di essi – e il più importante – è Gesù. Ma come facevano questi stessi gnostici cristiani a conciliare le proprie concezioni con la narrazione della Genesi, che presenta la creazione come opera di Dio? In effetti, neppure ai cristiani ortodossi è mai sfuggita la differenza fra il dio dell’Antico e quello del Nuovo Testamento: il primo si presenta come geloso, vendicativo, a volte francamente crudele e spesso incomprensibile nel suo agire; il secondo è invece misericordioso, pronto a perdonare l’uomo e a condurlo alla salvezza malgrado tutte le sue manchevolezze. La soluzione tradizionale consiste nell’ammettere un differente atteggiamento dell’unica divinità così come è presentata nelle due parti della scrittura: dopo il peccato originale e fino all’incarnazione abbiamo un Dio giustamente severo verso un’umanità – a cominciare dal popolo ebraico – che ha gravemente mancato nei suoi confronti; dopo la venuta del Messia, il medesimo Dio si manifesta come colui che ha liberamente scelto di sacrificare il proprio unico Figlio per la salvezza di chi crederà in lui. Anche in questo caso, la soluzione degli gnostici – dei cristiani gnostici – è radicalmente diversa. Per loro l’Antico e il Nuovo Testamento non presentano comportamenti differenti dello stesso Dio, bensì due dèi distinti e contrapposti. Il primo è il Demiurgo malvagio, creatore del mondo fisico e dunque responsabile di tutto il male che quel mondo permea; il secondo è il Dio supremo, il Primo Eone che ha inviato i propri angeli per fornire agli uomini con la gnosi una via di scampo dal carcere in cui sono imprigionati. Per alcune sette gnostiche, in particolare gli Ofiti, ciò comportava un’interpretazione originale della figura del serpente che suggerisce a Adamo ed Eva di mangiare il frutto proibito. In effetti, tale figura è presentata nel libro della Genesi come l’avversario per antonomasia di Dio; ma se quel dio è ormai identificato con il malvagio Demiurgo responsabile del male del mondo e della sofferenza umana, allora il suo nemico dovrà essere reinterpretato in chiave positiva. Per gli Ofiti, il cui nome significa proprio “seguaci del serpente”, quest’ultimo altri non è che uno degli angeli mandati dal Dio buono per salvare gli uomini dalla trappola di quello malvagio, proponendo a essi di nutrirsi del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, cioè offrendo loro la gnosi salvifica.

Abbiamo dunque delineato alcuni dei tratti comuni alla sensibilità gnostica; ma – come per tutti i fenomeni storici, compresi quelli attinenti alla storia delle cultura – dobbiamo ancora porci un’ulteriore domanda: quali sono le origini di tale visione del mondo, quali le fonti e influenze che in esse hanno finito per convergere? Si tratta – ancora una volta – di una questione estremamente complessa: le premesse e le cause dell’emergere dello gnosticismo – già di suo molteplice e frastagliato – devono essere ricercate in molte direzioni; tentiamo tuttavia di farlo – semplificando un po’ – indagando in tre ambiti distinti. In primo luogo, una sensibilità per alcuni versi affine a quella gnostica è presente nella civiltà ellenica – e di seguito più in generale in quella occidentale – fin dalle sue origini: potremmo indicarla come il “pessimismo greco”, già individuato all’inizio dell’Ottocento da Arthur Schopenhauer e poi – sia pure con una significativa revisione – da Friedrich Nietzsche alla fine dello stesso secolo. Si tratta di una corrente minoritaria, o comunque a volte poco appariscente e carsica, a confronto con quello che potremmo invece per contrasto definire come l’”ottimismo greco”. In effetti, l’immagine dominante dell’antica civiltà ellenica è quella di un mondo caratterizzato da una certa solarità, in cui gli dèi erano la personificazione dei fenomeni naturali e delle caratteristiche della personalità umana; in cui la vita – in tutti i suoi aspetti, a cominciare da quelli più propriamente legati alla corporeità – era concepita essenzialmente in termini gioiosi e positivi; in cui si coltivavano l’armonia e la bellezza: un mondo, insomma, dominato dallo spirito Apollineo, per utilizzare un’espressione resa famosa da Nietzsche ne La nascita della tragedia. Esiste tuttavia nella civiltà greca anche una tendenza opposta, quella per cui la vita – quantomeno quella fisica e corporea – è invece essenzialmente male. È questo, appunto, il pessimismo greco, ben espresso da un motto che attraversa tutta quella civiltà, secondo cui la cosa migliore per l’uomo sarebbe non essere mai nato, ma, una volta nato, la seconda cosa da desiderare è di morire al più presto. Lo stesso pessimismo che già all’inizio del VI secolo a.C. fa dire a Saffo, in preda agli spasmi dell’amore e della gelosia, non già – come ancora si legge in qualche cattiva traduzione – “vorrei morire”, bensì “vorrei essere morta”, cioè, di fatto, vorrei non essere mai esistita.

Si tratta di un sentire che non riguarda solo la vita umana, ma coinvolge l’intero cosmo. Così suona infatti il più antico frammento testuale pervenutoci dalla filosofia greca, che costituiva probabilmente l’incipit del libro Sulla natura di Anassimandro, vissuto nella generazione immediatamente successiva a quella di Saffo: “Inizio e elemento primordiale di tutte le cose è l’illimitato; e donde viene agli esseri la nascita, là avviene anche la loro dissoluzione secondo necessità; poiché si pagano la pena e l’espiazione dell’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo”. Quasi che per ogni ente il venire all’esistenza altro non fosse che la rottura di una perfetta unità originaria, colpa che si paga poi nel corso dell’esistenza stessa, con tutta la sofferenza e da ultimo la dissoluzione finale che la caratterizza, in un mondo che è in realtà un inferno, in cui ognuno infligge dolore e morte a tutti gli altri. Come si è detto, è stato per primo Schopenhauer a cogliere l’esistenza di questo filone pessimista della civiltà ellenica, e la sua prosecuzione in tutta la successiva cultura occidentale: per esempio, in pieno XVII secolo, più di due millenni dopo Anassimandro, il drammaturgo spagnolo Calderón de la Barca sembra ancora echeggiare il primordiale frammento di quell’antico pensatore, affermando che “Il peggior delitto dell’uomo è quello di essere nato”. E sempre a Schopenhauer – che pure fu fra i primi studiosi e ammiratore delle filosofie e delle religioni dell’India – va ascritto il merito di aver colto il carattere sostanzialmente originario e non derivato dall’Oriente di quel pessimismo greco e occidentale, anche se non sarebbero mancati successivi apporti dal mondo indiano e, soprattutto, iranico.

Uno dei frutti più significativi del pessimismo greco fu l’orfismo, una corrente religiosa sviluppatasi soprattutto nelle colonie elleniche dell’Italia meridionale a partire dal VI secolo a.C. Si tratta di uno dei culti misterici e iniziatici – il più famoso dei quali erano i misteri di Eleusi – che nel mondo greco affiancavano la religiosità olimpica. Non è questo il luogo per entrare nei dettagli dei culti orfici e delle credenze che vi venivano proclamate. Basti qui ricordare che gli orfici credevano nella metempsicosi, cioè nella trasmigrazione delle anime di corpo in corpo in un ciclo di morti e rinascite. È però importante sottolineare che, nell’orfismo come nelle analoghe credenze presenti nella tradizione religiosa dell’India, la metempsicosi – o reincarnazione, come più comunemente e impropriamente si dice – non deve essere intesa come una promessa, come per esempio quella della sopravvivenza dopo la morte propria del cristianesimo, bensì come una minaccia: quella di non riuscire a sfuggire alla ruota delle rinascite – e al suo inevitabile corredo di sofferenza – neppure con la morte. In effetti, secondo la testimonianza di Platone, per gli orfici il corpo era la prigione o – peggio – la tomba dell’anima (in quest’ultimo caso giocando sulla somiglianza fonetica fra sôma = “corpo” e sêma = “segno” e dunque per traslato “tomba” in quanto segno che indica il luogo di una sepoltura). Sempre Platone ci riporta un’altra immagine, ancora più drammaticamente esplicita: come i pirati etruschi, in una terribile forma di tortura, legavano i loro prigionieri a un cadavere in putrefazione; così secondo l’orfismo l’anima è legata al corpo, esso stesso destinato alla corruzione. Scopo dell’uomo sarà dunque quello di liberarsi dal ciclo nelle rinascite, per tornare a una postulata esistenza incorporea originaria e perfetta, nella convinzione che quella sia la vera vita, e non già quella incarnata, che – come suggeriscono le immagini sopra riportate – è in realtà morte: più propriamente, si tratta di liberare l’anima, cioè la parte spirituale dell’uomo, dalla sua prigione e tomba corporea. In realtà, per indicare la componente spirituale della natura umana, sembra che gli orfici utilizzassero il termine daímon, cioè demone, a indicare – come le entità semidivine che gli antichi greci indicavano con tale appellativo – una sorta di scintilla della divinità caduta e imprigionata nella corporeità, che da tale condizione aspira a essere liberata. E per gli orfici la via maestra di questa liberazione è la conoscenza – o meglio la visione – delle verità segrete cui solo agli adepti era concesso partecipare nel corso dei culti misterici: già con l’orfismo, dunque, siamo di fronte all’idea di una conoscenza rivelata, cioè di una gnosi liberatoria.

Pochi decenni dopo la nascita dell’orfismo, le sue convinzioni escatologiche, cioè relative al destino ultramondano dell’essere umano, saranno condivise dalla setta filosofico-religiosa dei pitagorici, anche se una componente della loro gnosi salvifica sarà costituita dalle conoscenze matematiche per cui sarebbero rimasti famosi, viste probabilmente come una forma di purificazione dell’anima, in quanto la matematica comporta forme di ragionamento via via più astratte e slegate dall’esistenza fisica e dall’apparenza empirica degli oggetti. E dai pitagorici la medesima concezione escatologica di fondo arriverà fino a Platone, anche se per lui la conoscenza liberatoria sarà almeno parzialmente estranea alla dimensione propriamente religiosa: non si tratterà più tanto di una gnosi rivelata, quanto della conoscenza derivata da quella particolarissima forma di ascesi (in greco “esercizio”) che è la ricerca filosofica.

La concezione gnostica di un mondo fisico inteso come una prigione dell’anima, che da esso aspira a liberarsi, è dunque già presente nei suoi tratti essenziali in tutta la tradizione filosofico-religiosa greca precedente, che ha nel pensiero di Platone uno dei suoi vertici più significativi. E proprio nel platonismo e nei suoi complessi sviluppi interni dobbiamo ricercare la seconda e più specifica fonte della visione del mondo gnostica. Anche in questo caso, non è certamente possibile delineare, fosse anche solo sommariamente, i complessi contenuti del pensiero di Platone, ma qui interessano solo alcuni aspetti specifici che si cercherà di individuare. La riflessione dell’antico filosofo gravita tutta intorno alla teoria delle idee, secondo la quale la realtà empirica è concepita come mera imitazione imperfetta e transeunte di modelli perfetti ed eterni, appunto le idee. Tale concezione, apparentemente lineare, nasconde invece in sé una sostanziale ambiguità, ovvero – se si preferisce – si regge in equilibrio su un sottile crinale, sempre a rischio di sbilanciarsi verso l’uno o dall’altro versante. In particolare, si pone una domanda, che non trova facilmente risposta: qual è nel pensiero di Platone il valore del mondo fisico, e dunque anche del nostro corpo che a quel mondo appartiene? Nelle sue opere pervenuteci – che, caso unico per i pensatori antichi, rappresenta forse la totalità o quasi di quelle da lui composte – non troviamo alcuna indicazione univoca in merito, anche perché – come noto – sono scritte nella forma del dialogo, in cui il pensiero dell’autore risulta mediato e in parte deformato attraverso le caratteristiche proprie degli interlocutori che egli immagina partecipare alla discussione.

Per esempio, tutt’altro che chiara appare la concezione platonica del rapporto fra anima e corpo, che si configura come un aspetto particolare di quello fra le idee, di cui l’anima è parente stretta, e il mondo empirico, di cui il corpo fa parte. In effetti, a volte, come già si è accennato, il filosofo sembra accogliere la concezione di tradizione orfica, secondo la quale il corpo è prigione e tomba dell’anima; in altri casi, invece, egli lo considera come uno strumento dell’anima stessa, di cui essa si serve per agire sulla realtà esterna. Si tratta di concezioni assai differenti fra loro, e per alcuni versi incompatibili. Nel primo caso, infatti, la dimensione fisica dell’essere umano è puramente e semplicemente un male, da cui l’uomo deve cercare di liberarsi; nell’altro, invece, essa è un aspetto della natura umana, certamente inferiore alla sua componente spirituale, ma non per questo intrinsecamente negativa. In questa seconda prospettiva, Platone paragone la relazione fra anima e corpo a quella che intercorre fra il falegname e i suoi strumenti, che certo sono subordinati all’artigiano stesso, ma senza i quali egli non potrebbe svolgere il proprio lavoro, e proprio per questo non li disprezza affatto e anzi se ne prende cura: d’altra parte, nel suo stesso comportamento personale, Socrate – che come interlocutore principale nella maggior parte dei dialoghi platonici rappresenta perlopiù le posizioni dell’autore, che ne era stato discepolo prediletto – mostrò sempre di avere il massimo rispetto per il proprio corpo, adottando tutti i comportamenti atti a garantirne la salute e l’efficienza.

In generale, la sottile ambiguità del pensiero di Platone si estende alla più ampia questione del rapporto fra mondo delle idee e mondo empirico, la dimensione fisica nella quale ogni essere umano vive e opera. Ponendo la questione in modo semplificato, la domanda che si pone è sostanzialmente la seguente: quel mondo è buono o cattivo? Anche in questo caso, nei dialoghi platonici non è possibile trovare una risposta inequivoca, o, meglio, entrambe le risposte possono essere trovate, a seconda di dove di volta in volta l’autore fa cadere l’accento. L’ambiguità segnalata, può essere espressa nei termini seguenti. Come si è detto, il mondo empirico e tutte le realtà che a esso appartengono sono concepiti da Platone come imitazione dei perfetti modelli ideali. Ora, se si sottolinea il fatto che essi partecipano in quanto imitazioni della perfezione delle idee, ne risulta necessariamente il loro carattere sostanzialmente buono e positivo; ma se, al contrario, si fa pesare l’aspetto per cui sono solamente imitazioni, ne emerge inevitabilmente il loro carattere limitato e imperfetto, se non francamente irrazionale, negativo e in ultima istanza malvagio.

La potenza complessiva della grande intuizione filosofica di Platone e lo stesso eccezionale valore letterario dei suoi dialoghi gli consentirono di rimanere in equilibrio sul crinale della sostanziale ambiguità della sua teoria principale; ma tale equilibrio era destinato inevitabilmente a perdersi nel platonismo dei secoli successivi, soprattutto quando esso dovette confrontarsi con nuove condizioni, ben diverse da quelle in cui era vissuto il maestro, in cui ormai il mondo antico stava iniziando a disgregarsi, sotto i colpi di una crisi al tempo stesso politica, economica, epidemiologica e culturale, entrando così in quella che un grande storico della civiltà ha efficacemente definito come un’epoca di angoscia. In effetti, all’inizio del II secolo d.C., l’impero romano aveva raggiunto la sua massima espansione con le ultime conquiste compiute da Traiano. Da quel momento, i confini non potevano più essere ulteriormente ampliati, non fosse altro che per l’impossibilità tecnica di governare con gli strumenti dell’epoca territori ancora più estesi; e proprio da quel momento, raggiunto il culmine, l’impero iniziò la sua irreversibile crisi. Il II secolo sembrò segnare per qualche tempo il raggiungimento di una condizione finalmente di pace, prosperità e stabilità, ma già nei suoi ultimi decenni i segni della crisi erano evidenti: la fine delle conquiste fece venir meno l’afflusso di manodopera schiavile; le terre coltivabili, prive della forza lavoro necessaria, cominciarono a spopolarsi; nuovi popoli premevano sui confini ormai troppo estesi dell’impero; e con esse arrivarono anche le prime devastanti epidemie. Ma fu nel III secolo che la crisi scoppiò in tutta la sua violenza: nei cinquant’anni della cosiddetta anarchia militare, si susseguirono con un ritmo impressionante imperatori effimeri creati e abbattuti dagli eserciti, e usurpatori che, ribellandosi al governo centrale, assumevano il controllo di alcune regioni staccandole dal corpo dell’impero; mentre popoli provenienti dal mondo germanico, da quello iranico, e dalle steppe dell’Asia centrale – quelli che i romani chiamavano semplicemente “barbari”, cioè genti che parlavano lingue strane e incomprensibili – sfondarono i confini e devastarono gran parte dei territori dell’impero. Di fronte a questo mondo in disfacimento, gli esseri umani – e dunque anche i filosofi e gli intellettuali di ogni genere – potevano reagire in due mondi opposti e solo apparentemente contraddittori: alcuni furono portati a elaborare concezioni metafisiche che rendessero conto della tragedia, raffigurandosi il mondo come essenzialmente malvagio e corrotto; altri, quasi nell’inconsapevole tentativo di esorcizzare quella stessa tragedia, vollero invece immaginarsi che quel mondo, malgrado la sua apparente malvagità, fosse comunque un mondo buono, almeno nel suo principio e nel suo fondamento profondo.

Fu quest’ultima la strada percorsa dal neoplatonismo tardoantico, a cominciare da Plotino, il principale esponente di tale corrente vissuto proprio nel III secolo. Egli si richiama probabilmente alle cosiddette dottrine non scritte di Platone, non riportate nei dialoghi ma insegnate dal maestro nell’Accademia, la scuola da lui fondata ad Atene, di cui noi oggi pochissimo sappiamo, ma su cui Plotino poteva forse avere notizie più ampie e significative; ma rilegge anche alcuni spunti effettivamente presenti dei dialoghi, in particolare un passo della Repubblica di Platone, in cui si ipotizza, al di sopra dello stesso mondo delle idee, la sussistenza di un principio ancora più elevato, “per dignità e potenza superiore all’essere”. A tale principio, che Platone identifica con il Bene e che rappresenta in un certo senso un modello di suprema perfezione per le idee, così come queste ultime sono un modello per la realtà empirica, Plotino, a sottolinearne l’assoluta trascendenza, preferisce non attribuire un nome, che ne depotenzierebbe il valore assoluto limitandolo a un unico aspetto della sua natura: tuttavia, per poterne in qualche modo nominarlo, egli utilizza il termine “Uno”, considerato il meno inadeguato fra gli appellativi utilizzabili, in quanto evoca il suo carattere di fondamento unitario da cui tutta la realtà deriva e cui in qualche modo può essere ricondotta. Dall’Uno, dunque, emana o procede – secondo la caratteristica terminologia neoplatonica – l’essere in tutti i suoi aspetti, da quelli più elevati e immateriali al mondo fisico: un essere, quindi, che per la sua stessa origine dovrebbe essere considerato buono e positivo in tutti i suoi aspetti.

Ma qual è, allora, l’atteggiamento di Plotino di fronte agli aspetti tragici della realtà che lo circonda? Che ne è del male del mondo? E che ne è di quella materia o chôra nella quale il Demiurgo secondo Platone – e anche secondo lo stesso Plotino – aveva plasmato il mondo, e che per l’antico maestro era caratterizzata da irrazionalità e disordine, che inevitabilmente finivano per proiettarsi anche sull’intera realtà fisica? Plotino non era tenero nei confronti della materialità: secondo il suo biografo Porfirio, cui dobbiamo anche la trascrizione delle sue lezioni, egli avrebbe affermato di vergognarsi di avere un corpo. Eppure la sua soluzione del problema del male è potente e radicale: il male si identifica con la materia, ma – ecco il colpo di reni concettuale che consente di trasformare un potenziale pessimismo nel più radicale ottimismo – il male e la materia puramente e semplicemente non esistono. Per Plotino, insomma, tutto ciò che esiste, derivando dall’Uno o Bene, in quanto esiste è buono: il male e la materialità altro non sono che la manifestazione della relativa mancanza di bene e di essere che caratterizza vieppiù gli enti mano a mano che essi, nel processo di emanazione, progressivamente si allontanano dall’Uno. La soluzione metafisica data da Plotino e dal neoplatonismo al problema del male – che pure in quegli anni terribili doveva essergli ben presente – consiste dunque nel depotenziarne radicalmente la consistenza ontologica – cioè, potremmo dire, la quantità di essere in esso contenuto – fino a ridurlo, malgrado tutto, a pura apparenza e, in ultima istanza, al nulla.

Ben diversa è invece la soluzione adottata dallo gnosticismo. Nella riflessione gnostica non è assente l’influenza della tradizione platonica, seppur mescolata con altre fonti di cui presto parleremo, e affogata nel lussureggiare delle sue complesse mitologie, che non a caso proprio Plotino non mancò di rimproverarle. Tuttavia, del platonismo la gnosi accentua il lato pessimistico, risolvendone le ambiguità nella direzione esattamente antitetica rispetto a quella presa dal neoplatonismo. E, anche in questo caso, non mancano i possibili agganci nelle dottrine del maestro. Platone, infatti, aveva individuato nella chôra un principio di disordine e di irrazionalità coeterno tanto al Demiurgo che in essa aveva plasmato il mondo, quanto alle idee alle quali nella sua opera si era ispirato, e in ultima istanza allo stesso Bene; e in qualche dialogo – nonché probabilmente nelle dottrine non scritte – il filosofo aveva fatto balenare l’ipotesi che, allo stesso livello dell’Uno e del Bene, dovesse ipotizzarsi la sussistenza di un secondo principio, quello della Diade indefinita, cioè della molteplicità: si trattava di postulati necessari per spiegare il disordine e, in definitiva, il male del mondo. Utilizzando tali spunti – mescolati ad altri di diversa provenienza – lo gnosticismo capovolgeva la prospettiva del neoplatonismo: mentre quest’ultimo aveva da ultimo negato l’esistenza del male; la gnosi ritiene tale esistenza drammaticamente reale, e intende spiegarla riconoscendogli una forte consistenza ontologica. Il male, anziché essere un alcunché di meramente apparente, è il fondamento metafisico del mondo fisico, frutto corrotto del Demiurgo maligno e impotente, che nella visione del mondo dell’uomo gnostico ha ormai sostituito il Demiurgo buono e intelligente che Platone aveva descritto nel Timeo.

Come si è detto, la gnosi è per molti versi espressione di una diffusa tendenza al sincretismo religioso, favorita inizialmente, a partire dalla fine del IV secolo a.C. dalla progressiva fusione della civiltà greca e di quelle dei diversi popoli che erano stati governati dall’impero persiano e che con le conquista di Alessandro Magno erano entrati a far parte di un’unica koiné (“comunanza”) culturale: tale koiné, che gli storici moderni hanno denominato “ellenismo”, aveva poi trovato una definitiva realizzazione politica con l’impero romano, che a gran parte di essa aveva esteso il proprio dominio. È in tale contesto che trova spazio l’influenza della terza fonte fondamentale cui si ispira lo sviluppo dello gnosticismo. Si tratta dell’antica religione iranica, ispirata all’insegnamento del semileggendario Zarathustra, il cui nome venne ellenizzato dai greci in Zoroastro. A partire dal VI secolo a.C., essa divenne la religione ufficiale dello Stato persiano, prima con la dinastia degli Achemenidi, poi – fra il III secolo a.C. e il III d.C. – con l’impero dei Parti, e infine fino al VII secolo con quello Sasanide, quando quest’ultimo venne travolto dall’invasione islamica che confinò l’antica fede zoroastriana in poche comunità isolate che ancora oggi sopravvivono in Iran e Iraq, nonché presso la popolazione Farsi del nordovest dell’India. Nel mondo antico, in cui prevalevano religioni politeiste, affiancate per molto tempo dall’unico monoteismo ebraico cui si aggiunse più tardi il cristianesimo, lo zoroastrismo rappresentò una notevole eccezione. In effetti, la dottrina di Zarathustra può essere considerata una forma di diteismo, in quanto era incentrata sull’esistenza di due principi superiori: un dio benigno di nome Ahura-Mazda e lo spirito maligno Ahrimane, destinati a confrontarsi e combattersi per l’eternità nel cosmo e all’interno stesso dell’esistenza umana. Nel crogiolo culturale dell’ellenismo, non c’è da stupirsi che tale concezione potesse influenzare e intrecciarsi con altre credenze religiose, accentuando in alcune di esse la tendenza a riconoscere, accanto all’esistenza di un dio buono, anche quella di un fondamento metafisico del male: metafora di tali incontro sono le figure dei Magi che secondo la tradizione sarebbero venuti a omaggiare il neonato Gesù, e che devono essere verosimilmente identificati con sacerdoti zoroastriani. E le influenze della religiosità iranica possono senz’altro essere riconosciute in alcuni aspetti centrali dello gnosticismo, in particolare nella sua concezione fortemente dualista e pessimista, che vede nel creatore del mondo un principio malvagio del tutto diverso dal dio buono in cui il fedele può riporre l’unica speranza attraverso la rivelazione della conoscenza salvifica.

D’altra parte, nell’ambito del mondo iranico, proprio nel III secolo d.C. che vide il fiorire di molti gruppi gnostici, si sviluppò la predicazione del profeta Mani, fondatore della religione che da lui avrebbe preso il nome, appunto il manicheismo. Essa si configura come una sorta di “eresia” dello zoroastrismo, che da un lato ne accentua il carattere dualista e pessimista, riconoscendo anche esplicitamente il carattere sostanzialmente malvagio del mondo fisico, del corpo e della materia che li costituiscono; e dall’altro non è scevra dagli aspetti di sincretismo – per esempio proprio con il cristianesimo – così tipici di quell’epoca: per molti versi deve essere considerato esso stesso una forma di gnosticismo, di cui condivide i nuclei concettuali fondamentali. Malgrado l’uccisione del suo fondatore, il manicheismo ebbe ben presto un grande successo, soprattutto all’interno dei confini dell’impero romano, dove sopravvisse al progressivo eclissarsi delle altre forme di gnosi, e fra IV e V secolo rappresentò un pericoloso concorrente del cristianesimo ormai diventato religione di Stato. La ragione di tale successo deve probabilmente essere ricercata nel fatto che, con il suo riconoscimento di un fondamento ontologico del male di potenza pari – o quasi – a quella del dio benigno e salvatore, sembrava dare una risposta convincente a chi – malgrado la provvisoria stabilizzazione dell’impero nel IV secolo – non poteva non vivere con angoscia l’incipiente disfacimento della civiltà tardoantica: non si dimentichi che proprio nel 410 il mondo dovette assistere alla tragedia fino ad allora inimmaginabile del sacco di Roma da parte dei Visigoti.

Il vescovo di Ippona Agostino individuò il pericolo e dedicò gran parte delle proprie energie intellettuali a combattere quell’avversario. In realtà, egli stesso in gioventù era stato manicheo, e anzi ne aveva approfittato per ottenere una potente raccomandazione da parte di ambienti manichei influenti a Milano – allora capitale dell’impero – per fare carriera e ottenere una cattedra di retorica nella metropoli, sfuggendo così alla marginalità della provincia africana di cui era originario; salvo poi, ottenuto il risultato, abbandonare rapidamente le proprie antiche convinzioni. In ogni caso, a prescindere da qualche motivazione di convenienza, l’iniziale adesione di Agostino al manicheismo non deve stupire: il teologo, infatti, ebbe sempre un senso molto forte del male del mondo e della peccaminosità umana, che peraltro lo conduceva, su un altro versante della propria polemica contro diverse eresie, a combattere le tesi pelagiane – così chiamate perché sostenute dal presbitero Pelagio – secondo cui l’uomo avrebbe potuto salvarsi grazie ai suoi soli meriti; tesi contro le quali Agostino giungeva a considerare l’intera umanità come un’unica massa damnata, incapace di compiere il bene, e che solo dalla grazia divina, elargita in base all’imperscrutabile volontà divina, poteva sperare la salvezza. In effetti, prima della propria definitiva conversione al cristianesimo, Agostino poteva trovare, nel riconoscimento manicheo di un autonomo e potente principio maligno, una teoria pienamente coerente con la propria dolorosa coscienza del male operante nel mondo e nell’uomo. Tale coscienza non lo abbandonò mai, ma poté da lui essere reinterpretata in chiave ortodossamente cristiana da un lato – come si è visto – con la sottolineatura dell’importanza della grazia come unica possibilità di salvezza di un’umanità che – almeno dopo la caduta di Adamo – deve essere considerata sostanzialmente e radicalmente malvagia; e dall’altro recuperando la tesi del neoplatonismo – da lui imparato a conoscere negli ambienti colti milanesi – secondo cui il male, propriamente parlando, non esiste, e altro non è che una mancanza di bene e essere delle realtà ontologicamente inferiori: secondo Agostino, insomma, il male non sta in ciò che esiste – che in quanto tale è, almeno relativamente, sempre bene – ma nell’atto con cui l’uomo decide di scegliere ciò che è meno buono invece di ciò che è migliore, per esempio il piacere fisico a scapito dei valori spirituali.

A partire dal V secolo il manicheismo perse decisamente terreno: se qualche effetto in tal senso poté avere la polemica di Agostino contro di esso, ben maggiore importanza ebbe certamente il deciso intervento a favore del cristianesimo delle autorità imperiali, che si impegnarono anche nella persecuzione di tutte le forme di religiosità eterodossa. D’altra parte, dell’ostilità imperiale nei confronti del manicheismo non ci si deve stupire, dal momento che quest’ultimo, considerando sostanzialmente come male il mondo fisico, rischiava di trascinare in tale giudizio lo stesso potere politico, che nel governo di quel mondo trovava la propria stessa ragion d’essere. Tuttavia, tendenze manichee non scomparvero del tutto. Tracce di esse devono verosimilmente essere riconosciute nella presenza dell’eresia pauliciana nell’Asia Minore della prima età bizantina, non a caso in territori non lontani dal mondo iranico. Non molto sappiamo di tale corrente religiosa, ma essa merita di essere ricordata perché probabilmente rappresentò storicamente il ponte fra il manicheismo e il bogomilismo, una eresia dualista e pessimista che troviamo attiva soprattutto fra X e XI secolo nei Balcani bizantini. Ed è probabile che proprio da lì, attraverso vie difficilmente ricostruibili, tendenze analoghe siano arrivate anche in Europa occidentale, dando origine all’eresia catara, probabilmente la più ampia e strutturata fra quelle che punteggiarono l’intera storia medievale. Il catarismo si affermò soprattutto in Provenza e più in generale nella Francia meridionale, nella pianura padana e nella valle del Reno. La sua diffusione sociale fu variegata, ma probabilmente trova un denominatore comune nei ceti vecchi e nuovi che le trasformazioni sociali e politiche del tardo medioevo tendevano a mettere in fermento: dagli artigiani delle città alla piccola nobiltà. Raramente i catari definirono sé stessi come tali, preferendo perlopiù chiamarsi semplicemente “buoni uomini” e “buoni donne”, che, al di là degli aspetti strettamente dottrinari delle proprie convinzioni religiose, cercavano di mettere concretamente in pratica gli aspetti caritatevoli e solidaristici dell’insegnamento cristiano. Eppure, il termine “cataro” appare come un’importante testimonianza dell’origine in ultima istanza orientale del movimento, e comunque dei suoi rapporti – peraltro storicamente testimoniati – con i bogomili del mondo balcanico-bizantino. In effetti, la parola deriva dal greco, lingua nella quale katharós significa “puro”. E alla purezza della vita cristiana aspiravano appunto i catari, che distinguevano tre distinte categorie di esseri umani: gli ilici (dal greco hýlē = “materia”), estranei alla gnosi salvifica e pienamente calati nella corruzione del mondo fisico; gli psichici (da psyché = anima), cioè i comuni fedeli catari; e infine il piccolo gruppo dei pneumatici (cioè “spirituali”, da pneuma = “spirito”), cioè coloro che hanno raggiunto la perfezione di una vita radicalmente ascetica che rifiuta del tutto ogni forma di commistione con il mondo, dal piacere fisico alla stessa riproduzione – perché mettere al mondo figli costringendone l’anima nella prigione di una realtà corrotta? – fino all’estremo della morte liberamente scelta per inedia e consunzione del corpo. Non è tuttavia da escludersi che nell’origine dell’appellativo “catari” abbiano giocato un ruolo anche le accuse mosse contro di loro dagli avversari. Questi ultimi, infatti, consideravano i “buoni uomini”, in quanto eretici, come seguaci del diavolo, cui spesso era collegato nella fantasia popolare – insieme al caprone e al serpente – anche il gatto. I catari, dunque, erano seguaci del diavolo, dunque seguaci del gatto, ovvero – per farla breve – gatti essi stessi. E in Renania “gatti” si doveva dire con un termine non molto diverso da quello dell’odierno tedesco, cioè katzen. Secondo alcuni studiosi, giocando su una certa assonanza, i catari avrebbero allora capovolto l’accusa mossa loro dagli avversari; un po’ come se intendessero dire: “Voi affermate che siamo come dei gatti seguaci del demonio (katzen)? Noi invece rivendichiamo di essere spiritualmente puri (katharoí)”. In ogni caso, il legame del catarismo con l’Europa orientale è testimoniato anche dal fatto che spesso le comunità catare erano definite come “chiese bulgare”, e ancora oggi in francese il termine bougre (possibile corruzione di “bulgaro”) significa qualcosa come ”tipaccio”, perché ovviamente gli eretici non potevano che essere cattive persone.

L’eresia catara fu combattuta dall’Inquisizione, che anzi fu inventata dalla chiesa cattolica proprio a tale scopo, a partire dall’inizio del XIII secolo: in questo essa fu potentemente fiancheggiata dalla monarchia francese, che vide nella cosiddetta crociata contro dagli albigesi (da Albi, uno dei principali centri di diffusione del catarismo) un buon pretesto per estendere il proprio dominio nel sud provenzale e occitano che allora non rientravano ancora nei suoi confini. L’impresa di estirpazione dell’eresia riuscì solo al prezzo di indicibili massacri e devastazioni, e non da ultimo nell’annientamento pressoché totale della raffinata cultura che in quei territori era fiorita nei secoli immediatamente precedenti: gli ultimi catari furono condannati al rogo all’inizio del Trecento. Eppure, lo spirito del catarismo non si estinse del tutto. Secondo alcuni studiosi, il fatto che nel Cinquecento le regioni meridionali della Francia abbiano costituito uno dei principali centri di diffusione del calvinismo testimonierebbe di una mai sopita ostilità nei confronti tanto del potere centrale della monarchia quanto della chiesa cattolica sua alleata; e le zone dei Balcani in cui è ancor oggi presente o dominante la fede islamica corrispondono largamente a quelle in cui era diffuso il bogomilismo, forse a testimonianza del fatto che, al momento dell’invasione turca, gli ultimi esponenti di quell’eresia, dopo secoli di persecuzioni subite da parte del cristianesimo ortodosso, trovarono più naturale avvicinarsi e da ultimo fondersi con i relativamente tolleranti invasori musulmani.

E oggi? Un interessante paragone è stato istituito da qualcuno fra lo gnosticismo e il cosiddetto complottismo. Questi due fenomeni, così lontani e per altri versi così diversi, hanno infatti in comune la tendenza a ridurre la complessità – e soprattutto quella degli innumerevoli aspetti negativi del mondo in cui viviamo – a un unico principio. Si tratterebbe, insomma, in entrambi i casi, del tentativo di semplificare la realtà, sfuggendo alla fatica di doverne indagare e analizzare i molteplici intrecci; ma anche di un fin troppo facile modo di sfuggire alle responsabilità, si tratti di attribuire la causa del peccato all’influenza irresistibile di un dio maligno, oppure quella di tutte le difficoltà che affliggono il mondo contemporaneo a un complotto dei poteri forti.

Eretico a chi?

Marco Chiauzza
Storico

La storia del cristianesimo è punteggiata dal sorgere e dall’estinguersi di una grande quantità di eresie, talmente numerose che è assai difficile classificarle o anche solo elencarle in modo esaustivo. Per impostare un’analisi dei movimenti ereticali è innanzitutto necessario precisare che nessuno di essi si è mai dichiarato tale. Il termine “eretico” è semmai stato utilizzato in senso spregiativo per indicare chi non apparteneva all’unica vera chiesa e non condivideva le giuste dottrine da essa proclamate. Da questo punto di vista, “eretico” è l’opposto per un verso di “cattolico” e per l’altro di “ortodosso”(si ricordi che solo a metà dell’XI secolo si ebbe la separazione fra la chiesa occidentale, oggi conosciuta come “cattolica”, e quella orientale, che da allora ha riservato a sé l’appellativo di “ortodossa”): in greco, infatti, katholikós significa “universale” – e la comunità dei fedeli non può che essere universale -, mentre il termine “ortodosso” indica il possesso della retta (orthós) dottrina (dóxa) in materia di fede. Per chi considerava sé stesso cattolico e ortodosso, eretico era allora chi aveva scelto di dare la propria adesione (aíresis, da cui “eresia”) a un gruppo distinto e separato dall’unica vera chiesa: in termini moderni, l’eresia era dunque una setta. Ma naturalmente ciascuno pensava che la vera chiesa fosse la propria, e la giusta dottrina quella in cui egli stesso credeva: insomma, ognuno era l’eretico di qualcun altro.

In effetti, ogni fedele pensava che solo la propria chiesa – cioè l’assemblea (ekklesía) dei fedeli – seguisse fedelmente l’insegnamento del fondatore, Gesù il Cristo; ma oggi siamo consapevoli che nessuno sa esattamente chi sia stato Gesù e quali siano stati in realtà i contenuti del suo insegnamento. Nel Cinquecento, alcuni riformatori pensarono di poter restaurare gli autentici contenuti della fede cristiana liberandola dalle illegittime incrostazioni che l’avevano alterata nei secoli del medioevo, e ritennero per questo di doversi fondare esclusivamente sul testo del Nuovo Testamento: sola scriptura – “solo per mezzo della Scrittura” – fu infatti il motto di Lutero. Ma si trattava di un’illusione. È infatti un errore pensare che fin dall’inizio le prime comunità cristiane si siano fondate sull’insegnamento del Vangelo. È piuttosto vero il contrario: ogni comunità venne elaborando testi sulla base della narrazione dei fatti e dei detti di Gesù così come erano riportati – perlopiù di seconda mano – da alcuni personaggi che godevano di particolare prestigio o influenza presso quello specifico gruppo. Si può dire, insomma, che non è stato il Vangelo a costituire il fondamento della fede dei primi cristiani; ma piuttosto che le singole comunità primitive hanno progressivamente dato origine a testi, alcuni dei quali sono poi confluiti nella raccolta che oggi conosciamo come Nuovo Testamento.
In effetti, solo nel IV secolo la chiesa – o meglio quella particolare chiesa cristiana che stava ormai diventando dominante grazie all’appoggio delle autorità imperiali romane – stabilì ufficialmente il canone degli scritti neotestamentari, stabilendo in sostanza quali, fra i numerosissimi scritti che la più antica tradizione cristiana aveva prodotto, dovessero essere riconosciuti come fondamento della fede. Tutti gli altri sono stati da allora considerati “apocrifi”, con un termine che oggi è perlopiù considerato sinonimo di “falso” o comunque “non autentico”, ma che in realtà significa “nascosto” o “segreto”, a suggerire che in essi si riteneva fosse depositata una tradizione in qualche misura esoterica, che riportava fatti e detti di Gesù non reperibili nella versione ormai diventata ufficiale del Vangelo. Come c’è da aspettarsi, quei testi sono andati in gran parte perduti, ma alcuni di essi si sono conservati più o meno frammentariamente, o perché citati da autori ortodossi con l’intento di confutarne i contenuti, o perché gli archeologi ne hanno recuperato copie in quelle che dovevano essere le biblioteche di antiche comunità eterodosse, cioè seguaci di una dottrina “altra” (héteros) rispetto a quella maggioritariamente ritenuta ortodossa. In realtà, è bene ricordare che, anche se alcuni dei cosiddetti vangeli apocrifi sono stati considerati falsi ed eretici, ciò non è vero per tutti: in certi casi, infatti, essi sono stati semplicemente ritenuti non canonici, cioè esclusi dalla raccolta ufficiale e dunque non utilizzabili quali fondamento della fede, ma sono stati comunque in qualche misura tollerati e hanno così contribuito all’affermarsi di alcune tradizioni all’interno del mondo cristiano.

La più famosa di esse è certamente quella del presepe, con tanto di bue e asino. L’invenzione del presepe è attribuita a Francesco di Assisi, ma essa si radica in una vicenda assai più antica e per molti versi interessante. Per la fede cristiana, la nascita di Gesù rappresenta l’evento fondamentale della storia, che segna una cesura radicale e irreversibile fra due epoche. Il Cristo, dunque, nasce al confine fra due ere. Ma in greco il termine che significa “era” e quello che indica “essere” e quindi anche “essere vivente” sono molto simili; e così in qualche momento deve essersi verificata una confusione, magari in quell’ambiente palestinese in cui il greco era pur sempre una lingua straniera e dunque non così familiare: a seguito di tale equivoco, si iniziò a pensare che Gesù non era solo nato a segnare il discrimine fra due epoche della storia della salvezza, ma anche, assai più prosaicamente, fra due animali. Ma quali potevano essere? Intervenne qui il ricordo della tradizione profetica dell’Antico Testamento, che anche altre volte avrebbe fornito materiale all’elaborazione dell’immaginario cristiano, come quando i quattro esseri contemplati in visione dal profeta Daniele divennero i simboli dei quattro vangeli. Nel nostro caso, nel libro di Isaia si legge che “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone; Israele non ha conoscenza, il mio popolo non ha intelligenza” (Isa 1: 2-3)”. Ecco dunque perché proprio quegli animali compariranno in un vangelo apocrifo – e poi nel presepe – a fianco di Gesù bambino, a rappresentare gli umili che riconoscono il loro salvatore a differenza di molti potenti e sapienti del mondo.

In ogni caso, come si è visto, la pluralità di tradizioni – e dunque di eresie – è antica quanto il cristianesimo stesso. La stessa figura di Gesù si presenta in modi assai diversi nei differenti testi che ci sono pervenuti, canonici o apocrifi che siano: in alcuni di questi ultimi, in particolare, essa compare a volte non già come quella di un maestro che insegna l’amore del prossimo, ma piuttosto come quella di un personaggio certo eccezionale, ma dal carattere assai vendicativo, pronto a uccidere con i propri poteri chiunque gli si opponga; oppure come una sorta di entità metafisica, ben lontana dalla concretezza umana con cui è descritta da altre fonti. Anche se oggi non sono più molti gli studiosi che giungono a negare la realtà storica della figura di Gesù, dobbiamo dunque riconoscere che di essa non sappiamo praticamente nulla, ed è impossibile sapere se si sia trattato di un capo rivoluzionario, di un riformatore politico, di un profeta, di un leader religioso o di altro ancora. Ancora una volta, bisogna ammettere che non si deve tanto pensare al Gesù storico e al suo insegnamento quale fondamento del cristianesimo, ma sia piuttosto ragionevole vedere nelle differenti immagini di Gesù che ci sono state tramandate il riflesso delle molteplici elaborazioni della sua figura operate nelle diverse comunità cristiane delle origini.

Tracce di tale pluralità sono d’altronde riscontrabili all’interno stesso dell’attuale canone neotestamentario, che risente delle specificità – e a volte delle reciproche ostilità – dei vari gruppi nell’ambito dei quali sono stati elaborati i diversi testi che lo compongono. Per esempio, se i vangeli di Marco e Matteo sono stati palesemente composti da ebrei per ebrei; quelli di Luca e Giovanni sono nati in ambienti anch’essi certamente giudaici ma fortemente influenzati dalla cultura greca. In particolare, l’autore del vangelo di Giovanni – che, come gli studi hanno ormai largamente riconosciuto, non è né l’apostolo né il compositore della più tarda Apocalisse – parla esplicitamente di un’esistenza eterna del Cristo prima dell’incarnazione come Logos, un’espressione greca in cui si fonde l’idea giudaica della parola creatrice di Dio e il concetto tutto ellenico della divina ragione universale, risalente alla tradizione filosofica stoica e platonica. Ma le tensioni più forti emergono soprattutto dalle lettere di Paolo e dagli Atti degli apostoli. Nelle epistole paoline vediamo l’apostolo impegnato in una battaglia senza quartiere per difendere le diverse comunità cui si rivolge dall’influenza di false dottrine, perlopiù diffuse da personaggi che si presentano essi stessi come cristiani: una battaglia, insomma, per promuovere un determinato e specifico cristianesimo contro altri.

Ma lo scontro più significativo, che emerge sia da quelle lettere che dalla narrazione degli Atti, è quello che si svolge all’interno di quello stesso cristianesimo che sarebbe poi stato riconosciuto come cattolico e ortodosso. Come si è detto, nel Nuovo Testamento si intreccia una tradizione più marcatamente ebraica con un’altra fortemente ellenizzante. Non si tratta di una differenza di mere sfumature culturali: corollario di tale diversità di prospettive è invece la questione dirimente e vitale consistente nel dover decidere se il cristianesimo avrebbe dovuto essere solo una delle tante scuole di pensiero giudaiche – come per esempio i sadducei o i farisei – il cui insegnamento avrebbe dovuto indirizzarsi esclusivamente o comunque prevalentemente al popolo ebraico; oppure era destinato a diventare una religione universale, il cui proselitismo si dovesse rivolgere anche – se non prevalentemente – ai gentili, ovvero ai non ebrei. La questione venne allora discussa nei termini apparentemente esteriori del problema della circoncisione: i gentili che volevano farsi cristiani avrebbe dovuto previamente farsi circoncidere, diventando così in un certo senso essi pure ebrei; oppure per loro tale pratica, imposta ai giudei dalla loro specifica tradizione religiosa, non era necessaria? Sostenitori della prima alternativa erano Pietro e, probabilmente, i familiari di Gesù, a cominciare dal fratello Giacomo, questi ultimi forse timorosi di perdere il prestigio che godevano all’interno della ristretta comunità dei seguaci ebrei del Cristo, qualora la nuova religione avesse allargato potenzialmente i propri orizzonti all’intera umanità; mentre Paolo propugnava la seconda prospettiva, ritenendo che la circoncisione della carne non fosse ormai più indispensabile, e dovesse essere sostituita da una spirituale circoncisione del cuore quale segno invisibile della conversione alla nuova fede. In una riunione svoltasi a Gerusalemme, che si deve immaginare assai concitata e che viene considerata come il primo concilio della storia della chiesa, prevalse sostanzialmente la posizione di Paolo, e con essa la possibilità per la chiesa cristiana di diventare universale, cioè cattolica: se nei secoli successivi Pietro e Paolo sono stati così spesso abbinati nella tradizione e nell’iconografia cristiana, questo non si deve affatto a un’inesistente unità di intenti dei due apostoli, bensì piuttosto all’esigenza di nascondere in qualche misura l’effettiva divergenza – quando non contrapposizione – che li aveva separati in vita. In ogni caso, la storia del giudeo-cristianesimo, ancora fortemente legato alla tradizione ebraica, non si esaurì con il cosiddetto concilio di Gerusalemme. Al contrario, esso sopravvisse ancora per parecchi secoli. La specificità di tale forma di cristianesimo risiedeva essenzialmente nel rifiuto della divinità di Gesù, evidentemente in contrasto con il rigido monoteismo degli ebrei. D’altra parte, bisogna riconoscere che tale divinità risulta solo da alcun i passi del Nuovo Testamento, di cui verosimilmente i giudeo-cristiani non riconoscevano il valore. È verosimile che all’inizio del VI secolo Mohamed, futuro fondatore della religione islamica, abbia incontrato alcuni degli ultimi epigoni di tale tradizione cristiana, da cui derivò il riconoscimento di Gesù come profeta, ma non come Dio.

In effetti, la questione dei rapporti con il passato giudaico fu una delle questioni che tormentò la vita delle comunità cristiane nei primissimi secoli; e all’estremo opposto rispetto ai giudeo-cristiani si collocarono per esempio i marcioniti, cioè i seguaci di Marcione, che nel II secolo ebbe una certa influenza nella stessa città di Roma. Nella loro versione, il cristianesimo doveva essere considerato una religione del tutto nuova, senza alcun rapporto con quella ebraica: ne conseguiva il rifiuto dell’intero Vecchio Testamento e – nell’ambito del Nuovo – il riconoscimento esclusivo di quelle parti che maggiormente marcavano la cesura nei confronti del giudaismo, come ad esempio le epistole paoline. Alla fine, come sappiamo, avrebbe prevalso una soluzione intermedia rispetto alla questione dei rapporti fra le due religioni, ben espressa dall’affermazione che l’insegnamento di Gesù aveva portato all’abolizione della legge degli ebrei e al tempo stesso al suo compimento: una formulazione non priva di ambiguità che nei secoli successivi avrebbe fatto spargere fiumi di inchiostro.

Come si è visto con riferimento al giudeo-cristianesimo, l’interpretazione della figura di Gesù fu al centro delle dispute nei primi secoli di vita della nuova religione. In effetti, il cristianesimo è la religione di Gesù, non perché egli – che era ebreo, non cristiano – ne sia stato il fondatore, ma piuttosto nel senso che esso gravita essenzialmente sul problema di come rispondere alla domanda posta dallo stesso Gesù ai discepoli nel vangelo di Marco: “Ma voi chi dite che io sia?”. La risposta data allora da Pietro – “Tu sei il Messia” – poteva essere interpretata nei modi più svariati, e così fu in effetti. Fra il III e il V secolo, i dibattiti all’interno del mondo cristiano ebbero a vertere essenzialmente su due questioni, peraltro fra loro strettamente connesse: quella cristologica – relativa cioè alla natura o alle nature del Cristo – e quella trinitaria – incentrata sulla relazione intercorrente fra le persone della Trinità. La complessità e la sottigliezza delle discussioni che si svolsero fra i teologi – che utilizzarono allora largamente gli strumenti concettuali della filosofia greca – venne ulteriormente complicata dagli intrecci fra questioni politiche e religiose che si verificò soprattutto nella parte orientale dell’impero romano, di cui il caso più noto e significativo è il concilio svoltosi nella città di Nicea nel 325, presieduto e di fatto largamente indirizzato dall’imperatore Costantino, peraltro a quell’epoca ancora non cristiano in quanto non battezzato: è comunque possibile tracciare una mappa semplificata delle soluzioni proposte.

Per quanto riguarda la questione trinitaria, il dibattito si svolse soprattutto attorno alla tesi proposta da Ario, il quale sosteneva che la natura del Cristo – il Figlio nell’ambito della Trinità – fosse inferiore, non uguale ma solo simile a quella del Padre. Tale dottrina venne condannata come eretica appunto nel concilio di Nicea, che ribadì la pari natura del Padre e del Figlio – e più in generale delle tre Persone – all’interno del rapporto trinitario: il decreto conciliare è alla base del “Credo” ancora oggi proclamato dalla maggior parte delle chiese cristiane, detto appunto “Credo niceno”, che sintetizza efficacemente l’idea della Trinità come una sola e identica natura divina articolata in tre persone distinte. Ma la storia dell’eresia di Ario non si concluse affatto a Nicea, e per tutto il IV secolo si alternarono al potere imperatori niceni e ariani. Che tanto si sia discusso attorno alla Trinità può apparire paradossale, se si tiene conto del fatto che da nessuna parte nel Nuovo Testamento – né peraltro nei vangeli apocrifi – si trova traccia di tale concetto. Cosa che nel XVI secolo venne riconosciuta da alcuni intellettuali umanisti, come il medico spagnolo Michele Serveto, che pagò la sua eresia con la morte sul rogo nella Ginevra riformata di Calvino, dove si era rifugiato per sfuggire ai rigori dell’Inquisizione cattolica; o i senesi Lelio e Fausto Socini, il cui insegnamento trovò un certo seguito in Polonia del Cinquecento, prima che quella nazione si chiudesse in un cattolicesimo intransigente e fanatico. Non può sfuggire, fra l’altro, l’anomala costituzione di questa particolarissima famiglia trinitaria, costituita da un padre e un figlio, ma dove la madre è sostituita dallo spirito, un terzo incomodo difficilmente definibile dal punto di vista del genere; questione forse parzialmente risolvibile considerando che il termine tradotto in italiano con “spirito” è maschile in latino (spiritus) e neutro in greco (pneûma), ma femminile in ebraico: la Trinità tornerebbe così a essere una famiglia più tradizionale. Lo Spirito sembrò comunque per lungo temo la persona più evanescente nell’ambito della Trinità, e forse proprio per questo motivo sarebbe rimasta relativamente marginale nella riflessione dei teologi fino ai secoli del medioevo inoltrato, quando nel XIII secolo il monaco calabrese Giacchino da Fiore ebbe a profetizzare, dopo l’età del Padre – precedente l’incarnazione – e quella del Figlio, l’avvento dell’età dello Spirito, che sarebbe stata dominata dall’amore reciproco fra gli uomini. In ogni caso, nel dibattito teologico e nei suoi addentellati politici, la questione trinitaria avrebbe giocato un ruolo importante ancora un millennio dopo la composizione dei libri del Nuovo Testamento: a metà dell’XI secolo lo scisma d’Oriente, che avrebbe separato da allora e fino a oggi la chiesa ortodossa greca da quella cattolica latina, ebbe la sua motivazione dottrinale fondamentale nella questione del Filioque, relativa a una diversa formulazione del Credo. Infatti, se i cristiani d’Oriente e d’Occidente erano d’accordo sul fatto che il Figlio, pur coeterno al Padre, fosse da esso generato; i primi ritenevano che lo Spirito procedesse dal Padre, mentre i secondi insistevano sul fatto che esso dovesse invece procedere dal Padre e dal Figlio (Filioque in latino). E questo fu considerato da entrambe le chiese motivo sufficiente non solo per separarsi, ma anche per scomunicarsi a vicenda.

La questione cristologica fu per molti versi ancora più tormentata, perché andava a toccare il nucleo stesso della fede cristiana: il paradosso di un dio sofferente. L’apostolo Paolo aveva riconosciuto in modo inequivoco la centralità dell’evento della croce, che secondo le sue parole costituiva “uno scandalo per gli ebrei e una follia per i pagani”, cioè per i filosofi greci. Nulla poteva infatti essere più lontano sia dalla concezione del dio ebraico che nel roveto ardente si era manifestato semplicemente come colui che è, definito così nella sua eternità e immutabilità; sia dalle imperturbabili divinità elleniche, la cui trascendenza era stata portata all’estremo dalla riflessione filosofica neoplatonica tardoantica. La questione cristologica riflette in effetti proprio le tensioni interne al primo cristianesimo fra tendenze giudaizzanti ed ellenizzanti. Da un lato, come si è visto, il giudeo-cristianesimo aveva semplicemente rifiutato la divinità del Cristo, salvando così Dio da qualsiasi coinvolgimento con la passione. Dall’altro, devono verosimilmente essere ascritte a influenze del pensiero filosofico greco altre posizioni relative alla figura di Gesù destinate poi a essere considerate come eterodosse. Si ebbe così in primo luogo il monofisismo, sostenuto dal vescovo Cirillo di Alessandria Egitto, che riconosceva nel Cristo un’unica (mónē) natura (phýsis) divina. Possibile corollario radicale del monofisismo era poi il docetismo che considerava meramente apparente (dal greco dokéō = “credo”, “ritengo”) la corporeità di Cristo e dunque la stessa passione: anche così la divinità veniva tenuta al riparo dalla sofferenza e dall’umiliazione della croce. Medesimo risultato poteva essere conseguito dalla tesi sostenuta da Nestorio. Se il monofisismo riconosceva in Cristo un’unica natura e un’unica persona, il nestorianesimo all’opposto – semplificando un po’ – sosteneva l’esistenza in lui di due persone e di due nature, una umana che aveva patito sulla croce e una divina che alla passione era rimasta estranea. Ancora una volta, come già nel caso della questione trinitaria, anche quella cristologica venne risolta a favore di una soluzione intermedia, adottata nel concilio di Calcedonia del 451, secondo la quale nell’unica persona di Gesù erano convissute inscindibilmente la natura umana e quella divina. La posizione calcedoniana, ancora oggi condivisa dalla maggior parte delle chiese, accettava dunque fino in fondo il paradosso paolino del dio sofferente: proprio la paradossalità della fede avrebbe anche nei secoli seguenti sostenuto le più profonde e intense riflessioni ed esperienze cristiane, da quelle di Lutero e di Pascal a quella di Kierkegaard. Né mancò chi dal calcedonianismo volle trarre conclusioni estreme, come i patripassiani, ovvero coloro che, dal fatto che nel Cristo crocifisso era presente anche la natura divina credettero di dover dedurre che pure il Padre, unito al Figlio in quell’unica natura, aveva partecipato in qualche misura alla medesima passione. E, anche in questo caso, né il nestorianesimo né il monofisismo scomparvero del tutto. Il primo era stato condannato dal concilio di Efeso del 431, ma i suoi seguaci, perseguitati nell’Impero bizantino, trovarono accoglienza e protezione nel vicino Impero persiano sasanide, potendosi così diffondere fino ai confini della Cina: nel medioevo l’esistenza di comunità nestoriane in quelle remote regioni fu probabilmente all’origine della leggenda del Prete Gianni, un mitico sovrano cristiano che avrebbe governato ampi quanto imprecisati territori dell’Asia e forse un giorno sarebbe potuto venire in soccorso dell’Europa nel suo scontro mortale con l’islam. Quanto al monofisismo, nel VI secolo Giustiniano, tentando di sanare i conflitti religiosi che dilaniavano l’impero, si fece promotore di una versione attenuata di tale dottrina, il monotelismo, sostenitore dell’esistenza nella persona di Gesù di entrambe le nature, divina e umana, con la precisazione tuttavia che la volontà divina prevaleva in ogni caso su quella umana, diventando così di fatto l’unica volontà (thélēma) del Cristo. Il tentativo di Giustiniano – che gli verrà rimproverato da Dante nel VI canto del Paradiso come inaccettabile ammiccamento a posizioni eretiche – andò incontro a un sostanziale fallimento, ma forme di monotelismo sono comunque sopravvissute fino a oggi: è questo caso della chiesa cristiana maronita, diffusa soprattutto in Libano, che riconosce comunque l’autorità del papa di Roma.

L’accanimento con cui in quei secoli lontani ci si scontrò intorno alle più sottili questioni teologiche potrà apparire a molti del tutto irragionevole, ma non si deve dimenticare che fra la tarda antichità e i primi secoli dell’età moderna il peso della religione nella vita collettiva e individuale delle persone era enormemente maggiore di oggi: all’epoca di Giustiniano monofisiti e calcedoniani non erano soltanto fazioni religiose, ma anche partiti politici contrapposti e rissose tifoserie sportive della corsa con i carri nello stadio di Costantinopoli, contraddistinte rispettivamente dai colori verde e azzurro; nell’Africa settentrionale del IV secolo l’eresia donatista, nata originariamente sulla questione della validità dei sacramenti impartiti da coloro che avevano abiurato durante le ultime persecuzioni anticristiane, finì per convogliare la protesta sociale ed economica delle popolazioni rurali emarginate e sfruttate di origine punica contro i ceti urbani privilegiati del capoluogo Cartagine; quanto all’arianesimo, oltre a essere per circa un secolo uno degli elementi dei conflitti ai vertici dell’Impero, nel IV secolo buona parte delle popolazioni germaniche – dai goti ai vandali – fu convertita a quella versione del cristianesimo dal vescovo goto Ulfila (il cui nome in antico germanico significa “lupetto”), e da allora essa divenne uno dei fattori della loro identità nazionale nel confronto-scontro con il mondo romano In ogni caso, tutte le discussioni e le lacerazioni che abbiamo brevemente descritto non esauriscono il quadro delle eresie dei primi secoli. Accanto a esse, infatti, fluiva fin dall’inizio un fiume carsico, che scorreva un po’ all’interno e un po’ all’esterno del corpo del mondo cristiano, già di per sé variegato e multiforme: era questa la gnosi, le cui radici, per alcuni versi precedenti alla stessa nascita del cristianesimo, si sarebbero sviluppate in complesse ramificazioni ben al di là della tarda antichità, fino a tutto il medioevo e oltre. Ma questa è – almeno in parte – un’altra storia.

Aiuti all’ospedale di Abobo, Gambela

L’Etiopia sta attualmente attraversando un periodo di grande difficoltà dovuta al conflitto interno esploso nella regione del Tigray. Le tensioni purtroppo continuano ed è complicato per i nostri amici missionari mantenere i contatti con i loro confratelli del Nord, mentre si ha notizia del crescere del numero delle vittime e degli sfollati.
Fortunatamente, nelle regioni del Sidamo e del Gambela dove si concentrano i nostri aiuti la situazione è per ora abbastanza tranquilla. Tuttavia, permangono anche in Etiopia le difficoltà dovute alla diffusione del Covid.
E’ stato quindi molto utile l’aiuto fornito al piccolo ospedale di Abobo, nel Gambela, a prevalente vocazione materno-infantile, con l’invio di farmaci e altre dotazioni per le mamme e i bimbi, del quale vi giriamo la documentazione pervenutaci dagli amici che se ne occupano.

La sfida degli impressionisti

Marilde Bordone
Insegnante di Storia dell’Arte

Negli ultimi decenni agli Impressionisti sono state dedicate molte mostre in Italia e in Europa che hanno visto una straordinaria affluenza di pubblico, anche alla luce di una rivisitazione critica importante iniziata già intorno agli anni 50 da Lionello Venturi, primo interprete della corrente.

La Parigi ottocentesca, che celebra gli esiti della rivoluzione industriale nelle Esposizioni, consente all’aristocrazia e alla fiorente borghesia di fruire delle opere d’arte nei Salon d’Esposition, in cui vengono esposte opere selezionate di chiara impronta accademica, che celebrano i valori classici di bellezza e armonia, il cui acquisto contribuisce alla decorazione della propria casa come status symbol denotativo di potere economico.

Il fermento creativo già in atto da parte di un gruppo di giovani artisti si manifesta e si fa esplosivo nella tela “L’origine del mondo” dipinta da Gustav Courbet nel 1866: opera in cui la descrizione quasi anatomica di un organo genitale femminile non è attenuata da alcun artificio storico o letterario e si impone con un’audacia che le conferisce un grande potere seduttivo.

Il dipinto, eseguito su commissione del diplomatico turco-egiziano Khalil Bey, ambasciatore dell’Impero ottomano ad Atene, fu esposto al pubblico in Francia al Louvre solo nel 1995. Secondo uno studio di Claude Shopp, accreditato dagli esperti, la modella, il cui viso è nascosto dal lenzuolo, sarebbe la ballerina Constance Quéniaux, una delle amanti del diplomatico, il quale teneva il quadro in un camerino dietro una tenda verde e lo mostrava agli ospiti delle feste che organizzava a casa sua.

La tela passò poi attraverso una serie di collezioni private, riuscendo a sfuggire al saccheggio dei nazisti e arrivò nel 1954 nella raccolta dello psicanalista Jacque Lacan che la teneva nascosta dietro un pannello. I suoi eredi la donarono allo Stato francese.

Courbet nelle sue manifestazioni d’artista faceva appello alle opere di Tiziano, Veronese e Correggio e alla tradizione di una pittura carnale e lirica. Solo grazie al suo virtuosismo, alla pennellata ampia e sensuale e al colore dalle morbide tonalità ambrate l’origine del mondo sfugge allo statuto di immagine pornografica.

La sfida ufficiale ai rigidi codici accademici e al perbenismo borghese però ebbe origine nel 1863 col Salon de Refusés, concesso ai giovani artisti da Napoleone III per dare spazio alle opere rifiutate da critici ed esperti nelle selezioni ufficiali.

A provocare scandalo fu “Le déjeuner sur l’herbe” di Edouard Manet, non solo a causa della discutibile tematica ma anche dello stile pittorico. L’opera ha come riferimento un’incisione di Marcantonio Raimondi, dal “Giudizio di Paride” di Raffaello.

È scandaloso per il pubblico benpensante vedere una donna nuda che siede disinvoltamente nel bosco tra due signori vestiti mentre un’altra donna semisvestita si sta bagnando, colte in una scena trasportata nell’attualità. I personaggi infatti sono riconoscibili. La donna nuda è Victorine Meurent la modella preferita di Manet, l’uomo al centro è lo scultore olandese Ferdinand Leenhoff e la figura di profilo è uno dei fratelli del pittore. Ma non è solo l’attualizzazione della scena a scandalizzare; per gran parte della critica è da condannare il modo innovativo di dipingere. Viene infatti abbandonato il chiaroscuro. Gli oggetti vengono definiti attraverso accostamenti di toni cromatici luminosi, realizzati con tinte piatte, in un’atmosfera sospesa che sottolinea lo straniamento dei personaggi stessi, divenuti espressione delle nuove inquietudini del mondo.

Manet si trova impreparato e stupito di fronte alle polemiche suscitate, che si ripetono nel 1866 con l’esposizione dell’opera “l’Olympia” che ha ancora per modella la sedicenne Victorine Meurent, e nelle intenzioni dell’artista si ispira alla Venere di Urbino di Tiziano, all’Odalisca con schiava di Ingres e forse anche alla Maja desnuda di Goya. Ma la posa provocatoria, il nastrino allacciato intorno al collo, il fiocco rosso che le orna i capelli, la pelle diafana in contrasto con quella nera della domestica che le porge un bouquet di fiori, presunto omaggio di un’amante, offre al pubblico l’immagine dell’amore venale, quello certamente in uso nell’ambiente più mondano e altolocato della ville lumière, capitale europea di vizi e virtù.

Ma è il nome di Claude Monet quello intensamente legato alle sorti dell’Impressionismo, dalla sua formazione, al suo sviluppo, alle sue conclusioni.

Il movimento inaugura la stagione dell’arte moderna con la mostra collettiva organizzata nello studio del fotografo Nadar al Boulevard des Capucines nell’aprile del 1874. Accanto a Monet ci sono altri giovani pittori nella serietà dei quali quasi nessuno crede: Renoir, Sisley, Pissarro, Cézanne, oltre a Degas e Berthe Morisot.

È un dipinto di Monet “Impression soleil levant” a suscitare le critiche più aspre. Il paesaggista Joseph Vincent, allievo di Bertin, premiato sotto diversi governi dichiara: “Cosa rappresenta il quadro? un’impressione…ne ero certo…una carta da parati appena abbozzata è più rifinita di quella marina”.  È Monet a rivoluzionare il corso della pittura restituendo all’osservatore una visione della realtà emozionale, cogliendo della natura il palpito vitale in un’atmosfera mutevole e fluttuante. Il colore scoppia sulle sue tele in una miriade di tocchi veloci e svirgolati e la luce le inonda con la sua piena solarità.

Significativa è una dichiarazione di Paul Cézanne: “Per un impressionista dipingere la natura non significa dipingere il soggetto, ma concretizzare le sensazioni”.

La sfida aperta all’accademismo imperante si propone in chiave ironica con la genialità di Edgard Degas in una fotografia “L’Apoteosi di Degas” in cui l’artista si fa fotografare seduto sui gradini di un edificio, serio e composto, circondato da figure simmetricamente distribuite: due ragazzi in primo piano e tre donne dietro di lui che porgono mazzi di fiori. Tale fotografia non è altro che la parodia dell’opera intitolata “Apoteosi di Omero”, firmata da Jean Auguste Dominique Ingres nel 1827, conservata al Louvre ed eseguita per decorare il soffitto di una delle sale del Museo stesso.

Ai piedi di Omero, assiso sul trono, siedono le due allegorie dei suoi capolavori: l’Iliade e l’Odissea, dietro di lui si cala la Vittoria alata per coronarlo con la ghirlanda d’alloro, simbolo di Apollo.

Degas stimava Ingres; il bersaglio era lo stile della pittura, cosiddetta accademica, di cui il dipinto era il perfetto manifesto. Egli trovava queste rappresentazioni simmetriche, bilanciate e armoniose troppo idealizzate e lontane dalla natura, vera fonte di vita. Ingres non se ne ebbe a male: era morto da circa 20 anni!

Dopo l’esposizione dell’aprile 1874 ciascuno dei partecipanti, pur partendo da un’esperienza comune, si orienta sulla ricerca di codici espressivi personali. Degas si avvicina al mondo dello spettacolo, della finzione e del mistero che si cela dietro le apparenze, evidenziando una dinamica che affonda le radici nel continuo divenire della quotidianità. Cézanne si orienta sul recupero delle forme, che gli impressionisti avevano scorporato nella luce, e le sintetizza in rigorosi moduli compositivi, semplificandole ed esaltandole col colore. Renoir celebra nella pittura tutto ciò che vive e palpita. Sente le cose come partecipi di un’unità indissolubile di aria e di luce e si inserisce nel flusso della vita. Pissarro, che partecipò a tutte le esposizioni collettive fino al 1886, cerca di realizzare nei suoi quadri una sintesi armonica fra delicatezza contemplativa e vigore strutturale. Sisley si distingue nel paesaggio per un linguaggio misurato e pacato, fatto di pennellate veloci e leggere e di valori tonali sfumati. Berthe Morisot, l’unica donna del gruppo, cresciuta in un ambiente famigliare colto e raffinato (era nipote di Fragonard), presto comincia a dipingere en plein air e ad esporre ai Salon.

Impronta tutta la sua opera pittorica ai nuovi principi della luce e del colore realizzando scene piene di luce, dal cromatismo ricco di valori argentei e delicati.

Gli artisti che condivisero, almeno per un periodo, l’esperienza innovativa dell’impressionismo non ebbero sempre buoni rapporti fra di loro.

Cézanne provava una spiccata antipatia, ricambiata, per Manet e gli si rivolgeva con scortesia. Divenuta celebre la frase con la quale un giorno lo salutò: “Non le stringo la mano, monsieur Manet, perché è una settimana che non la lavo”

Manet ebbe fama di donnaiolo e contrasse la sifilide, che ne segnò il destino, ma fu anche affetto da dolorose forme reumatiche. Il 6 aprile 1883 gli venne amputato il piede sinistro e circa un mese dopo morì a 51 anni.

Berthe Morisot si era perdutamente innamorata di lui e, pur di stargli vicino, arrivò al punto di sposarne il fratello Eugéne anche lui pittore e spesso diede luogo a furibonde scenate di gelosia, soprattutto quando Manet prese come allieva l’avvenente Eva Gonzales.

Berthe continuò a partecipare a tutte le mostre impressioniste, ad eccezione dell’anno in cui nacque la figlia Julie, e finanziò col marito l’ultima edizione, quella del1886, in cui prese parte attiva alla selezione degli artisti. Rimase vedova nel 1892 e nello stesso anno riuscì ad allestire la sua prima mostra personale alla galleria Boussot e Valadon. Nel febbraio del 1895 si ammalò. Ebbe il tempo di affidare la figlia all’amico Stéphane Mallarmé e di regalare gran parte dei suoi lavori agli amici. Morì il 2 marzo.

Riposa nella tomba della famiglia Manet nel cimitero di Passy. Sulla sua lapide la scritta: “Berthe Morisot, vedova di Eugéne Manet”. Non Compare alcun accenno alla sua apprezzabile carriera di pittrice. Il suo certificato di morte reca la dicitura “senza professione”.

È fuori dubbio che alla base dell’impressionismo ci sia stato il principio fondamentale che ruota intorno alle opere della Scuola di Barbizon, piccolo villaggio nella Foresta di Fontainebleu, dove il fondatore Théodore Rousseau si stabilì per dipingere in libertà osservando la natura dal vero. Altri artisti poi, attratti dall’approccio innovativo del plein air, vi si raccolsero nello spartano albergo di pére Ganne, fra i quali Camille Corot. Essi volevano cogliere i cambiamenti della luce (ispirandosi in parte ai pittori fiamminghi e olandesi del seicento) e le sfumature del paesaggio, ma le loro opere, contrariamente a quelle degli impressionisti, non venivano completate all’aperto, ma nel chiuso dello studio.

A dare piena libertà alla pittura impressionista fu anche l’innovazione, introdotta da Jhon Rand nella fornitura del colore ad olio in tubetti di stagno, perfetti per la conservazione prolungata.

Renoir stesso dichiarò: “senza i tubetti di colore non ci sarebbero Cézanne, Monet, Sisley o Pissarro, niente di ciò che i giornalisti avrebbero chiamato Impressionismo”.

 La pittura impressionista suscitò scandalo fino al momento in cui il suo linguaggio, lontano dalla storia, dal mito e dalla religione, fatto di attimi fuggenti e di evocazione di valori istantanei di luce non fu pienamente assimilato.